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Il Piccolo 20-02-2002

Il pm Tito analizza il dopo-Tangentopoli nel Friuli Venezia Giulia ed evidenzia la necessità di non abbassare la guardia

«Corruzione più subdola nella politica»

«Abbiamo solo fatto il nostro dovere, quella del complotto è una balla colossale»

TRIESTE «Nella corruzione politica qualcosa è cambiato, almeno nelle forme. Più subdole, più striscianti, in modo da sfuggire al Codice. La corruzione amministrativa, quella dei piccoli funzionari pubblici, procede invece imperterrita: la si tocca con mano. Comunque rifarei tutto quello che ho fatto a Pordenone, Milano e Trieste, Magari cercando di far meglio. Ritengo indispensabile l'autocritica ma non credo di aver commesso grossi errori: non ho dato giudizi morali sugli indagati, mi sono mantenuto sul piano tecnico- giuridico. Niente aggettivi, solo sostantivi». Il pm Raffaele Tito, il magistrato che ha legato il proprio nome alla lotta alla corruzione, compie un bilancio della sua attività investigativa iniziata dieci anni fa sul fronte di «mani pulite».

Le sue indagini hanno sconvolto il sistema politico regionale. Presidenti, vicepresidenti, assessori, sindaci, capitani di industria, faccendieri, manager hanno dovuto confrontarsi con lui. Rispondere alle sue domande, alle sue precise contestazioni. Lui da una parte del tavolo. Loro dall'altra, assieme all'avvocato. Molti sono finiti in carcere, molti hanno patteggiato la pena. Ora buona parte di questi manager, sindaci, amministratori, è ritornata a far politica. C'è anche chi ha trovato il modo, passata la bufera, di affermare pubblicamente di guadagnare più soldi di un tempo e di sentirsi estraneo alle inchieste di tangentopoli. Uno schizzo di fango spazzolato via dalla giacca con «nonchalance», Come non fosse mai arrivato.

Raffaele Tito in questi ultimi dieci anni non ha invece avuto nè avanzamenti di grado, nè progressioni di carriera al di là di quelle previste dal contratto dei magistrati. E' rimasto un sostituto procuratore, in una procura di provincia. Anzi ai limiti estremi dello Stato.

«E' questa la prova che non c'è stato un complotto dei giudici contro certi partiti e certi imprenditori. Che non c'è stato un disegno politico alla base della nostra azione. Abbiamo applicato la legge, facendo solo il nostro dovere». Il giudice sotto le cui finestre dieci anni fa a Pordenone la Lega Nord manifestava tutto il suo appoggio, è seduto nella sua stanza al secondo piano del palazzo di Giustizia di Trieste. Una stanza piccola: scrivania, computer, due armadi e un numero enorme di fascicoli e faldoni sparsi dovunque. Tra le altre 'carte' vi sono quelle del crac da 500 miliardi della Banca di Credito di Trieste che oggi va all'udienza preliminare. E ci sono le copie degli atti della strage di Udine del Natale '98 su cui Raffaele Tito ha indagato per tre anni. Il processo in assise si aprirà a marzo nel capoluogo friulano e Tito dovrà reggere da solo tutto il peso dell'accusa. Solo contro una trentina di avvocati pronti a sottolineare presunte nullità, mancate notifiche, ritrattazioni.

«Abbiamo fatto solo il nostro dovere applicando la legge quando emergevano episodi di corruzione. Non c'è stato alcun complotto contro questo o quello. E' una balla colossale. Se poi per assurdo dovesse emergere da una seria inchiesta che qualche magistrato ha agito per livore o pregiudizio politico, colpendo i gialli e i verdi e risparmiando i marrone, ebbene questo magistrato deve andare in carcere per tutta la vita».

«Nessuno crede che un chirurgo tagli col bisturi la gamba a un paziente solo perché questo è socialista. Nessuno nemmeno crede che risparmi l'amputazione a chi può esibire la tessera dei Ds. Invece il discredito viene sparso a piene mani sulla magistratura sostenendo simili tesi. Perché un giudice non deve essere ritenuto imparziale come un chirugo o un farmacista? Questa confusione deriva dal fatto che i politici applicano il loro modo di pensare a fatti squisitamente tecnico- giuridici. Ma non basta: gli stessi politici che gridano al complotto, esibiscono ai cittadini un certo numero di assoluzioni di imputati di tangentopoli. Però si dimenticano di dire che le regole del processo penale sono state cambiate dallo stesso mondo politico mentre i dibattimenti erano in corso. Quello che era possibile a un pm all'inizio dell'inchiesta, non lo è stato più nelle ultime udienze. E' cambiata la valutazione delle prove con una legge fatta valere retroattivamente. In pratica è stata applicata un'amnistia strisciante. Non dico che la prima legge era buona e la seconda cattiva. Affermo solo che la partita non può iniziare con certe regole e finire con altre. Il campionato di calcio ne sarebbe sconvolto. Figurasi un processo penale...»

«Dispiace che non ci sia stata la condanna morale di chi aveva fatto della corruzione un sistema seriale, un modo di essere e di rappresentarsi verso la cosa pubblica. Mi sono imbattuto in 'mani pulite' durante un'inchiesta pordenonese su una turbativa d'asta. Il fatto emerso si è rivelato tutt'altro che isolato. Abbiamo iniziato a scoprire legami, rapporti, modi di comportarsi e di far soldi. Abbiamo costruito sulla falsariga di Milano una banca dati, un archivio in cui confluivano anche i dettagli più insignificanti dei reati contro la pubblica amministrazione. Lo stesso metodo è stato usato per organizzare a Trieste il pool che contrasta le organizzazioni di passeur. E' un'eredità di tangentopoli, un affinamento dei metodi investigativi che ho imparato a Milano lavorando con Borrelli, di Pietro, Colombo». «Ciò che sta accadendo a Torino dimostra che si indaga ancora sulla corruzione politica anche se i pochi che sanno, difficilmente sono disposti a parlare con gli inquirenti. Il livello di moralità è basso e la gente sembra preferire i furbi che vincono troppo spesso. Io ho ancora voglia di fare questo lavoro. Mi piace, sono motivato. No, non ho chiesto il trasferimento, rimango a Trieste in Procura perché conosco la realtà cittadina e regionale e so come indagare. Ne ho ancora voglia anche se in questi dieci anni mi sono arrivati tantissimi colpi bassi. Più erano potenti i miei indagati, più i colpi sono stati bassi».

Claudio Ernè