20 Referendum dei Club Pannella 1995



[Droghe leggere] [G.d.F.] [Obiezione di coscienza] [Caccia] [Aborto] [Scuola elementare] [ENEL] [Golden share] [Patti in deroga] [Ritenuta d'acconto] [S.S.N.] [P.R.A.] [Legge elettorale Camera] [Legge elettorale Senato] [C.S.M.] [Responsabilita' civile dei magistrati] [Incarichi extragiudiziali dei magistrati] [Carriere dei magistrati] [Ordine dei giornalisti] [Pubblicita' RAI]


1 REGOLAMENTAZIONE DELLE DROGHE LEGGERE


La legge, come è noto, proibisce di fare uso di alcune sostanze che comunemente vengono definite "droghe". Questa legislazione risponde al principio più generale che solo proibendo determinati comportamenti se ne possono evitare le conseguenze negative.
Nel corso della storia situazioni analoghe si sono verificate in molti Paesi, che hanno cercato di risolvere con la proibizione il problema del consumo di sostanze ritenute (a volte solo temporaneamente o per motivi culturali) pericolose per la salute o per la società. Ogni volta, questo atteggiamento ha avuto effetti secondari devastanti (basti pensare al proibizionismo sugli alcoolici negli Stati Uniti) senza peraltro riuscire nel suo scopo.
La proibizione, impedendo una corretta informazione sui veri effetti delle sostanze proibite, e ostacolandone un consumo cosciente e moderato, crea effetti indesiderati molto piu' pesanti del danno che vorrebbe limitare.
Le conseguenze sono particolarmente gravi quando si tratta - come è il nostro caso - di sostanze come i derivati della cannabis (marijuana, hashish...).
Per quanto riguarda la tossicità, tali sostanze sono molto meno pericolose, infatti, di altre droghe del tutto "legali", come tabacco ed alcool. Al contrario di queste, inoltre, non provocano dipendenza fisica, né situazioni patologiche, come tumori polmonari o cirrosi epatica.

Inoltre:

* l'uso di queste sostanze è assai diffuso nel nostro Paese. Si stima che siano milioni quanti le consumano, almeno occasionalmente;
* è escluso che possa esserci connessione fra l'uso di queste sostanze e comportamenti devianti, e il loro consumo non reca danno nei confronti di altri; cio' malgrado, l'attuale legislazione assimila i consumatori, anche occasionali, a veri e propri criminali;
* l'attuale politica repressiva puo' portare anche alla carcerazione di consumatori di sostanze leggere, in generale giovani incensurati che conducono una vita del tutto normale: essi vengono così posti brutalmente a diretto contatto con ambienti malavitosi e con i consumatori di droghe pesanti che, come è noto, anche per l'effetto criminogeno della politica proibizionista e le disfunzioni della giustizia, sovraffollano le carceri;
* il probizionismo fa nascere un mercato illegale, clandestino, ovviamente in mano alle organizzazioni criminali (in Italia, in particolare, mafia, 'ndrangheta, ecc.) che riversano gli enormi guadagni così realizzati nell'economia legale, inquinandola e distorcendone lo sviluppo;
* l'attuale regime, proibizionista indistintamente su tutte le sostanze, mette in contatto, all'interno del mercato illegale, i consumatori di droghe leggere con gli spacciatori di sostanze sia leggere che pesanti; ed è ben noto che il passaggio, che comunque solo pochi compiono, dall'uso di hashish o di marijuana a quello della cocaina o dell'eroina, avviene proprio a causa della promoscuità commerciale: per esempio, gli spacciatori fanno sparire dal mercato le sostanze leggere per spingere i consumatori a passare a quelle pesanti, più redditizie per i trafficanti; • in Olanda, dove già da alcuni anni l'uso dei derivati della cannabis è di fatto depenalizzato, non si è osservata una crescita del consumo di tali sostanze, ne' significativi casi di passaggio generalizzato alle droghe pesanti.
Il referendum chiede di escludere dal novero delle sostanze illegali i derivati delle sostanze psicotrope classificate come "droghe leggere".

La loro depenalizzazione, che si otterrebbe dal successo del referendum, eviterebbe ogni forma di collegamento tra il mercato di queste sostanze e quello delle sostanze pesanti; inoltre, pur senza risolvere il problema del narcotraffico di queste ultime, ridurrebbe ampiamente il giro di affari della criminalità organizzata, limitando fortemente l'inquinamento dell'economia legale da parte delle organizzazioni criminali.
Si eliminerebbero di colpo tutti i danni causati ai singoli e alla società dalla criminalizzazione dei consumatori.
Si libererebbero le risorse umane, tecniche e finanziarie attualmente impegnate per la repressione dei consumatori di sostanze leggere dalle varie polizie, che potrebbero essere meglio utilizzate per combattere le organizzazioni criminali ed intervenire, per esempio, nella prevenzione e nel recupero in relazione alle droghe pesanti.



2 SMILITARIZZAZIONE DELLA GUARDA DI FINANZA


L'esistenza di vere e proprie associazioni a delinquere attive entro la Guardia di Finanza e diffuse capillarmente in tutto il Paese - ai danni dei cittadini e della gran maggioranza dei finanzieri, leali e onesti servitori dello Stato - è stata da noi denunciata per anni, anche in parlamento, tra l'indifferenza della magistratura inquirente (quella che oggi spara su Tangentopoli...) e dei responsabili dell'Amministrazione delle finanze.
Ma gli ultimi avvenimenti di cronaca giudiziaria rendono non più eludibile la necessità di accertare l'origine, l'ampiezza e la durata dei fatti criminosi nei quali risultano coinvolti settori non marginali del Corpo, nonchè le eventuali collusioni con partiti politici, enti pubblici, organi dello Stato o forme di criminalità organizzata.
E' ormai urgente che il Parlamento metta mano con urgenza ad una profonda ristrutturazione della Guardia di Finanza, con l'obiettivo di potenziarne efficienza e professionalità anche in relazione ad una più ampia riforma dell'Amministrazione dello Stato.
La smilitarizzazione costituisce la premessa indispensabile della riforma.
Essa è oggi richiesta anche da un gran numero di finanzieri onesti e seri, ben consapevoli che la militarizzazione del Corpo ha rappresentato una causa di distorsione e di inefficienza e anche, per molti dei suoi alti ufficiali, una fonte di privilegi personali inaccettabili.
In nessun Paese del mondo incontriamo l'eccentrica bizzaria di avere verificatori fiscali che vanno a controllare i registri delle aziende in tenuta da combattimento. In tutta Europa operano invece corpi civili con altissima professionalità e preparazione specifica e senza alcuna commistione con le Forze Armate.
Recenti riforme hanno smilitarizzato la polizia di Stato, la polizia municipale e la polizia penitenziaria.
La sola Guardia di Finanza è restata un corpo militare, anzi una polizia. Ma fino a un certo punto. E' una polizia tributaria, ma solo in piccola parte. Insomma, la Guardia di Finanza è tutto e il contrario di tutto.

Ed il modello militare comporta un mucchio di gravi inconvenienti:

* i reparti e il personale sono distribuiti sul territorio nazionale con criteri discutibili ai fini dell'operatività, perché obbediscono a logiche di natura militare (ad esempio la difesa dei confini ad est!) e non seguono la dislocazione degli interessi economici sul territorio;
* l'iniziativa e la responsabilità dei singoli nonchè la loro preparazione specifica vengono frustrati e disattesi (buona parte del monte-ore dei corsi di formazione del personale viene ad es. dedicata alle materie militari, non a quelle di natura professionale);
* l'ossessione militare accompagna il finanziere lungo tutta la carriera, cosicchè all'età di 45 anni viene ancora addestrato nel lancio delle bombe a mano o a sparare con armi pesanti (per i coraggiosi sono previsti corsi presso i reparti speciali dell'Esercito e della Marina, mentre gli ufficiali vengono spediti a seguire i corsi del Centro Alti Studi della Difesa); gli arruolamenti rispondono a criteri selettivi assurdi, che tengono conto negativamente di lievi anomalie fisiche di un concorrente magari laureato, diplomato, con attitudini e preparazione specifica di buon livello;
* la gerarchia militare può compiere gli arbitri più sfacciati senza che sia possibile discutere o accertare le ragioni di ordini che sovente appaiono veri e propri abusi;
* infine, il Comandante Generale della Guardia di Finanza è un Generale di Corpo d'Armata dell'Esercito, sprovvisto il più delle volte di competenza in materie giuridiche od economico-contabili.

Degli oltre 60.000 militari in servizio, appena un terzo è impiegato nella lotta all'evasione fiscale.
Le Fiamme Gialle sono suddivise in 156 settori professionali, alcuni al limite dell'incredibile: dal nocchiere al lamierista, dall'odontotecnico al verniciatore, dal sommozzatore all'istruttore cinofilo, dal pilota di aereo al massaggiatore, dall'allenatore sportivo al saldatore passando per il fabbro, il marconista, il chimico e l'addetto al soccorso alpino!
Il Corpo è dotato di ben 506 navigli ( 23 sono barche a vela!), di 98 aerei (altri 17 arriveranno entro il 1996) e di 7.861 automezzi, tra i quali, ambulanze, trattori, cingolati, autocistrerne, autobus...Un inutile spreco. Si spiegano anche così i faraonici 3.411 miliardi di lire stanziati nel 1993 a favore del funzionamento del Corpo.
I vertici del Corpo hanno la necessità di mantenere impegnato un inutile, sproporzionato ed autoriproducentesi apparato burocratico-amministrativo. Non per nulla negli ultimi venti anni il numero dei suoi generali (e quindi dei rispettivi comandi ed apparati) si è quintuplicato...
Con questo referendum - presentato a distanza di quindici anni da uno analogo, dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale nel 1981 - si chiede di abolire tutte le competenze di natura strettamente militare previste dalla legge istitutiva del Corpo, ferme restando quelle attinenti al mantemimento dell'ordine pubblico.
In tal maniera si è superata la motivazione della sentenza del 1981, che parlava di difetto di omogenità o univocità del quesito, che investiva sia le funzioni militari che quelle di sicurezza interna.



3 OBIEZIONE DI COSCIENZA


Il referendum intende far sì che il diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare armato sia riconosciuto come diritto soggettivo perfetto, non sottoponibile al vaglio discrezionale di una qualsiasi autorità.
Così come per gli altri referendum sui diritti civili, sul divorzio e sull'aborto, anche questa volta si cerca di fissare un punto di buon senso.
Si cerca di far vincere la ragionevolezza sulle deliranti tesi di chi pretende che un tribunale o una commissione possano sondare le coscienze, per accertare se esistano davvero i motivi e i radicati convincimenti dichiarati per poter esercitare questo diritto.
Se questa battaglia referendaria dovesse essere vinta, per poter opporre obiezione di coscienza al servizio militare armato sarà sufficiente una dichiarazione individualmente motivata.
Restano ferme le cause ostative, quale può essere il possesso di porto d'armi, o quando si sia stati condannati per detenzione abusiva di armi.

Già numerosi organismi internazionali si sono espressi in favore del riconoscimento alla obiezione di coscienza del carattere di diritto soggettivo perfetto:

* il Consiglio dei Ministri del Consiglio d'Europa con la raccomandazione n.8 del 1987;
* la Commissione dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 59 del 1989;
* il Parlamento Europeo con la risoluzione n. 15 del 1989.

La risoluzione del Parlamento Europeo, invitando i paesi dell'Unione Europea ad adeguarsi a questa normativa, ha anche messo in luce gli squilibri prodotti dalle disparità e dalle discriminazioni esistenti nelle disposizioni in vigore nei vari Paesi per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e per la regolamentazione delle modalità di prestazione del servizio sostitutivo civile.
Tali squilibri si ripercuotono sull'accesso dei giovani al mondo del lavoro e sulla libera circolazione all'interno della comunità europea; condizionano inoltre pesantemente le possibilità dei giovani europei in merito alla formazione professionale, e all'acquisizione dei diritti sociali e politici, ritardando notevolmente il processo d'integrazione europea.

Queste difficoltà ed impedimenti negano di fatto la possibilità agli obiettori di tutta Europa di contribuire, adeguatamente coordinati, all'estensione dei diritti di cittadinanza ed alla crescita delle condizioni di pari opportunità per gli uomini, in particolare per quel che riguarda i paesi del sud del mondo.
Se difficoltà ed impedimenti venissero eliminati, si contribuirebbe dunque anche a ridurre le minacce alla nostra sicurezza che provengono da quelle regioni e che trovano una seria ragione di essere nella loro pesante emarginazione. Nei giorni che precedettero e seguirono la guerra nel Golfo, Marco Pannella ammonì che una azione preventiva di informazione del popolo iracheno - abbandonato invece in balia del dittatore - avrebbe potuto evitare la drammatica scelta dell'intervento armato.
Ma dietro le cattive ragioni con cui si sostengono posizioni del tutto prive di buon senso si nasconde il tentativo delle burocrazie militari e civili di conservare privilegi consolidati, rendite di posizione o comunque nicchie di potere che sfuggono al controllo democratico. Sono questi gli ostacoli che il referendum vuole eliminare.
Se questo referendum dovesse vincere sarebbe sicuramente grande lo stravolgimento che subirebbe tutta l'organizzazione della difesa nel nostro Paese:
il finanziamento pubblico dovrebbe essere ridistribuito in funzione della necessità di gestire un numero probabilmente minore di soldati di leva (tendenza già in atto, che subirebbe una brusca accelerazione) e della necessità di una più accurata e indipendente organizzazione del servizio civile, da collegare anche con le analoghe organizzazioni negli altri Stati. In questo modo si rafforzerebbe l'ipotesi di un esercito di volontari, che porterebbe ad un aumento dell'efficienza e all'eliminazione di enormi sprechi.
Interessi da battere sono anche quelli di chi mercifica l'obiezione di coscienza per incamerare notevoli risparmi (centinaia di miliardi) attraverso l'utilizzazione di manodopera a costo zero.
Altri privilegi ai quali questa battaglia referendaria si oppone sono quelli di chi ha costruito sull'obiezione di coscienza una sorta di "sindacato", più attento a salvaguardare i propri privilegi corporativi che a tutelare gli interessi degli obiettori.

L'importanza del referendum risiede quindi nella possibilità - da un lato - di abbattere gli ostacoli e le remore che una certa sinistra, culturalmente troppo distante dalle idee liberali e libertarie, non è riuscita a superare e - dall'altro - di togliere gli alibi ad una gestione spesso poco trasparente e inefficiente dei fondi destinati alla difesa.




4 CACCIA


"Un vulcano apparentemente dormiente sta di nuovo sbuffando.
E' il problema-caccia. Qualcuno infatti si sta accorgendo che la caccia in Italia costituisce ancora un problema..."


Così l'apertura dell'editoriale sul numero di luglio della rivista "Panda", organo del World Wildlife Fund (WWF) italiano.

L'articolo del Codice Civile che proponiamo di abrogare (n. 842) è un esempio unico di inciviltà ambientale.
E' l'articolo che consente a chiunque porti un fucile (in pratica, ai cacciatori) di entrare in un fondo agricolo, in un terreno privato, magari anche coltivato, per esercitarvi il suo sport, senza chiedere il permesso del proprietario, e anche contro la sua volontà.
In nessun paese al mondo esiste una norma simile.
Di per sé - come ognuno può capire - grottesca e incomprensibile, la norma è, peraltro, un vero "residuato bellico".
Venne infatti introdotta nella nostra legislazione nel 1942, per favorire la preparazione militaresca degli italiani, togliendo un impaccio alle esercitazioni di guerra...
Ma le lobby dei cacciatori e dei produttori di fucili sono così forti da aver sempre impedito che venisse abrogata.
Nel 1975, un referendum degli abolizionisti fallì perché non vennero raccolte le firme necessarie;
nel 1986, le firme vennero raccolte dagli ambientalisti coordinati dagli Amici della Terra ma, con un cavillo, la Corte Costituzionale dichiarò inammissibile il quesito. Infine, nel 1989, un pesante astensionismo, favorito dall'errore strategico di aver unito il quesito ad uno sui pesticidi (che vide coalizzarsi gli avversari, cacciatori ed agricoltori) determinò la sua decadenza.

In questi anni, la regolamentazione della caccia è assai peggiorata. La rivista "Panda", nello stesso numero, denuncia i dilaganti tentativi in corso per far regredire l'Italia all'ultimo posto nel mondo per la protezione ambientale. Le responsabilità sono, va detto, di tutti i partiti.
Se da destra si è riusciti quasi ad ottenere (grazie ad una semplice circolare, ora sospesa dal T.A.R.) la liberalizzazione di fatto della caccia di ogni specie, anche di quelle protette, violando la stessa legge italiana e le direttive europee, gli amministratori delle Regioni Umbria e Marche "sono divenuti di fatto rappresentanti del mondo venatorio", mentre in Toscana è stata proposta persino l'apertura della caccia al lupo...

"In Parlamento sono stati presentati disegni di legge di tutti i tipi. Da quelli che consentono l'utilizzo di fucili più potenti o con un maggior numero di colpi a quelli che vogliono dividere l'Italia in tre grandi ambiti territoriali di caccia (nord, centro e sud). da quelli che consentono di commerciare ogni tipo di animale a quello che permette di catturare ogni tipo di specie"

Secondo la rivista ambientalista, in Italia "il mondo venatorio è troppo lontano dall'Europa".
Ma noi pensiamo invece che l'opinione pubblica sia assai più matura e responsabile di quella che è, tutto sommato, una minoranza, e che essa sia perfettamente consapevole della necessità di non depauperare ancor più, a danno delle future generazioni, l'ambiente naturale o ciò che ne resta, che è un capitale prezioso e insostituibile (e come si sa, il capitale non va mai intaccato, pena la diminuzione degli interessi).
Già il Wwf, gli Amici della Terra, altre associazioni ambientaliste hanno mostrato entusiasmo e disponibilità per questo referendum, per il quale sono pronte a raccogliere le firme.
Ma noi contiamo anche, questa volta, sull'appoggio aperto e forte del mondo degli agricoltori, dei grandi e piccoli proprietari terrieri, delle società di agriturismo, che dall'articolo 842 del Codice Civile sono danneggiate anche seriamente.

E questa volta, dopo gli "scippi" e persino gli errori commessi negli anni passati, dovremmo farcela.




5 ABORTO


In una questione così difficile, così drammaticamente coinvolgente la coscienza come quella dell'aborto, è ammissibile che dominino ipocrisia e inganno?
Noi riteniamo di no; e per questo proponiamo un referendum che rappresenta in primo luogo un'operazione di pulizia e chiarezza, nella quale possono incontrarsi anche persone che sostengono posizioni opposte circa la liceità morale dell'aborto.

La sostanza della proposta referendaria sta nell'abolizione della figura dell'aborto di Stato, nel riconoscimento che un drammatico problema di coscienza come quello se interrompere o no una gravidanza non può essere affidato allo Stato e ai suoi organi bensì solo alla coscienza e alla necessaria e inevitabile responsabilità della donna.

Per questo il nostro referendum riconsegna anche al privato quello che oggi è monopolio ingiustificato e pericoloso delle strutture pubbliche.
La lettera della legge 194 e la sua applicazioni comportano un cumulo di tartufesche contraddizioni.
All'art.1 essa dichiara che lo Stato "tutela la vita umana dal suo inizio".
Ma quelle che seguono sono le indicazioni dei casi in cui lo Stato rinuncia a questa tutela e autorizza l'aborto. In particolare, esso è consentito entro i primi 90 giorni, purché la donna dichiari per iscritto che la maternità comporterebbe un "serio pericolo per la sua salute, fisica o psichica" in relazione a una ampia serie di casi, e anche in relazione "alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari".
Insomma, lo Stato non osa riconoscere che solo la donna può scegliere se diventare madre o no; epperò poi ammicca alla donna, le spiega che può abortire quanto vuole: a condizione però che - per salvare la forma - faccia il favore di dichiarare non la sua drammatica verità, che cioè essa non può o non ritiene di dover o poter mettere al mondo un figlio, ma quello che nella gran maggioranza dei casi è un falso: adduca dunque, per esempio, problemi di salute, magari psichica; e si arrangi a motivarli come le pare.
Il medico, poi, è chiamato ad essere testimone-complice della falsa dichiarazione.
Il compito di dichiarare il falso passa direttamente al medico, invece, quando si tratta di autorizzare l'aborto dopo che si sia superato il terzo mese: come tante volte può accadere anche per le lentezze e i ritardi delle strutture sanitarie pubbliche, le uniche che la legge autorizza a praticare gli aborti.

Qui emerge la seconda incongruenza della legge:
perché mai, una volta che l'aborto sia consentito, esso non può essere effettuato - con le debite garanzie sanitarie - anche in ambulatori o cliniche private, come ogni altro intervento sanitario?
Problema tanto più rilevante nelle zone in cui una forte presenza di medici obiettori nelle strutture pubbliche determina difficoltà e ritardi, particolarmente gravi in materia di aborto.
Che anche così la legge voglia marcare il controllo dello Stato sull'aborto ribadisce la scelta di fondo della 194: l'istituzione dell'"aborto di Stato".
Questo e non altro si ha infatti quando è lo Stato a stabilire in quali casi la gravidanza possa essere interrotta. (E ha un suono particolarmente sinistro che fra i "casi" vi sia la previsione di "anomalie o malformazioni del concepito": lo Stato, di fatto, si fa giudice del valore maggiore o minore di un vita...)
Si potrebbe obiettare: di fatto la legge funziona, di fatto sono le donne che scelgono di abortire.
In parte - solo in parte - è vero: ma sulla base di ipocrisie e menzogne, richieste e imposte dalla legge.
Che accadrebbe se davvero l'aborto fosse possibile solo quando venisse "documentatamente" minacciata la salute della madre?...
La legge funziona solo perché la si disapplica. Chiediamo verità.
Il referendum sopprime tutte le parti della legge relative alla casistica (per i primi 90 giorni) e al monopolio delle strutture sanitarie pubbliche.
Se sarà approvato, si renderà piena dignità al medico e alla donna: togliendo al primo il carattere impostogli di pubblico ufficiale, e sostanziando l'inevitabile e necessaria responsabilità della donna, alla quale spetterà, in coscienza, decidere se interrompere la gravidanza, e dove, senza umilianti dichiarazioni false.
Affidarsi in tal modo a responsabilità e coscienza è l'unica strada seria anche per coloro - cattolici e non cattolici - i quali ritengono inaccettabile l'aborto ma sono anche consapevoli che il suo divieto per legge è un'ipocrisia impotente, che "salva la coscienza" del legislatore ma non impedisce gli aborti: li respinge solo nella clandestinità, aggiungendo tragedia a dramma.
E nella loro coscienza sanno che nell'agire di ogni uomo l'ultimo tribunale è nella responsabilità e nella coscienza coscienza di ciascuno. Il referendum solo questo chiede, facendo crescere una più alta coscienza in ciascuno e persino creando condizioni che aiutino le donne a scegliere di non abortire.



6 SCUOLA ELEMENTARE


Non è un problema minore di organizzazione scolastica, ma una grande questione sul modo di essere della scuola, sulla libertà di insegnamento e sulla libertà di scelta delle famiglie, quella che si pone con il referendum che vuole abrogare l'obbligo di adottare dovunque e comunque - nelle scuole elementari - il "modulo" dei tre o più insegnanti per classe.
Quest'obbligo infatti da un lato rischia di determinare scompensi molto gravi nella formazione di intere generazioni; dall'altro ha introdotto niente di meno che la figura dell'insegnante privo - per legge! - della libertà di insegnamento, e l'esistenza di una verità pedagogica di Stato.

Vediamo perché.
La "riforma" del 1990 ha stabilito che nelle elementari, invece di un maestro per classe, vi sia un gruppo - detto "modulo" - di tre insegnanti ogni due classi. I tre maestri (ma in molti casi di fatto sono di più) insegnano in ognuna delle due classi, dividendosi fra loro le materie.
Non esiste più la figura del maestro (o della maestra) che segue e indirizza nel suo complesso l'attività scolastica dei bambini; in classe si susseguono i diversi insegnanti, che secondo una precisa scansione di orario insegnano ciascuno la propria materia; all'incirca come avviene nelle scuole superiori.
L'insegnamento risulta così spezzettato, con effetti spesso di confusione per i bambini, e ogni maestro tende a preoccuparsi più della singola materia di cui è incaricato che dello sviluppo complessivo del bambino, come dovrebbe essere alle elementari.

In nessun altro Paese in Europa esiste qualcosa del genere.
In tutti gli altri Paesi, nella scuola elementare esiste la figura dell'insegnante di classe, o come maestro unico o come insegnante centrale con il quale collaborano altri insegnanti per alcune funzioni o per alcune materie.
Ovunque, cioè, si riconosce una realtà fondamentale: che il bambino piccolo ha bisogno di un punto di riferimento stabile, che gli dia certezze e sicurezza.
E' quello che rischia di mancare con il sistema dei tre insegnanti: se, come spesso accade - ed è naturale che accada - i tre non vanno d'accordo, o magari insegnano ciascuno con metodi e criteri diversi, il bambino - che non è ancora dotato di una sua maturità critica - entra in uno stato di disorientamento e di ansia assolutamente negativo.
Tanto è evidente il problema, che la legge ipocritamente afferma che i tre maestri devono assicurare "l'unitarietà dell'insegnamento".
Ipocritamente: è ovvio che in molti casi il dissenso sia insuperabile, non si arrivi ad alcuna unitarietà e si mettano così in crisi i bambini.
Oppure può accadere che pur di garantire ai bambini un insegnamento unitario, chi fra i maestri è in minoranza accetti, per senso di responsabilità, di insegnare con un metodo che non condivide.
Il sistema del "modulo" reca in sé, insomma, la definizione dell'insegnante privo, per legge, della libertà di insegnamento.
Quel che neanche il fascismo aveva proclamato in questi termini.
E ancora.
L'organizzazione per moduli, l'applicazione alla scuola elementare della divisione delle materie fra diversi insegnanti può corrispondere a un certo modo di considerare i bisogni dei bambini di quell'età, e dunque a certe impostazioni pedagogiche.
Ma certo è incompatibile con altre impostazioni e metodologie pedagogiche, in cui è essenziale un diverso rapporto fra il bambino e l'insegnante.
Rendere obbligatorio per tutti il sistema dei moduli equivale perciò a proclamare che nella scuola di Stato alcune tendenze pedagogiche hanno cittadinanza, e altre sono di fatto bandite.
Equivale a istituire una pedagogia di Stato, in violazione ai principi fondamentali di libertà.

Bisogna dire le cose come stanno.

A fare introdurre questo ordinamento, con tutti i suoi difetti, hanno contribuito in modo determinante pressioni di ordine sindacale e - in presenza del calo demografico - preoccupazioni per l'occupazione degli insegnanti, anche a costo di umiliarne libertà e professionalità.
Il referendum non intende mettere in discussione la questione del numero complessivo degli insegnanti; né vuole imporre, al posto del modulo, un altro qualsiasi modo uniforme di organizzare la scuola.
Il referendum propone invece di cancellare dalla legge ogni riferimento ai "moduli" come unica struttura obbligatoria.
Se la proposta fosse accolta, la conseguenza sarebbe quella di un ordinamento di libertà: chi, in coscienza, ritiene di offrire un insegnamento migliore con il sistema dei "moduli" potrà continuare a farlo, chi invece preferisce un'altra struttura avrebbe la possibilità di adottarla.
E le famiglie potrebbero scegliere. Su questa base, sarebbe possibile arrivare a un'offerta differenziata anche per quel che riguarda l'orario - dal tempo pieno a un tempo scolastico più breve dell'attuale - per rispondere alle esigenze e alle domande diverse delle famiglie.

In una parola: il referendum vuol porre un principio di libertà a fondamento della riforma della scuola.


7 ENEL


L a legge 1643 del 1962 ha istituito l'ENEL (Ente Nazionale per l'Energia Elettrica) affidandogli l'esercizio di tutte le attività nel settore elettrico, praticamente in regime di monopolio (con alcune eccezioni rappresentate dalle aziende municipalizzate e dagli autoproduttori industriali).

Per circa 20 anni, l'ENEL ha impedito o scoraggiato nuove iniziative di produzione di energia elettrica, che avrebbero potuto avere ricadute positive sia in termini di impatto ambientale che di diversificazione e sviluppo di tecnologie moderne, flessibili, meno costose.
Inoltre, nel produrre la sua energia, l'ENEL ha usato prevalentemente combustibili molto inquinanti (l'olio combustibile ATZ - Alto Tenore di Zolfo - una delle principali cause delle piogge acide) tanto che l'Italia risultava tra i maggiori produttori di inquinamento in Europa.
Successivamente, alcune leggi (legge 308/82 e legge 9791) hanno parzialmente intaccato l'esclusiva dell'ENEL, consentendo la produzione di energia elettrica da parte di soggetti diversi: ma solo con impianti alimentati da fonti rinnovabili o ad esse assimilate, lasciando così integro il monopolio per quanto riguarda tutte le altre attività del settore elettrico (importazione ed esportazione, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dell'energia).
In ogni caso, il coordinamento delle attività di produzione realizzata dai vari soggetti resta ancor oggi attribuito, per legge, all'ENEL.

Questa pur parziale liberalizzazione ha dato subito risultati significativi: in soli due anni si sono avute nuove iniziative di produzione per circa 250 impianti, di potenza complessiva pari a 6.300 megawatt (l'equivalente di circa 8 centrali nucleari come quella di Caorso).
Sono impianti di piccola e media taglia, ben distribuiti sul territorio, prevalentemente dislocati in regioni con scarsità di altre risorse energetiche, che per il loro funzionamento utilizzano fonti energetiche rinnovabili (idroelettrica, eolica, biomassa, ecc.), rifiuti, residui di processo, combustibili di scarto; e se utilizzano combustibili fossili (sopratutto metano) come gli impianti di produzione combinata di energia e calore (i cosidetti cogeneratori), li sfruttano con una efficienza di gran lunga superiore a quella delle centrali ENEL.

Nel 1992, con la legge 359, numerosi enti pubblici, tra i quali l'ENEL, sono stati trasformati in società per azioni.
Oggi l'ENEL s.p.a. - azionista unico il Ministero del Tesoro - svolge le stesse funzioni che prima svolgeva come ente pubblico.
Continua insomma la situazione di monopolio, accettabile se il processo di liberalizzazione della produzione continuasse.
In realtà il governo intende procedere rapidamente alla vendita delle azioni dell'ENEL s.p.a., dal momento che si mantiene intatto il regime di monopolio dell'Ente, le conseguenze del passaggio dal sistema pubblico al privato sarebbero molto pericolose: mentre un monopolio pubblico è comunque sotto il diretto controllo dello Stato, un privato avrebbe come suo incentivo prioritario il solo profitto e non certo gli interessi della collettività

Un monopolio in mano privata potrebbe fare il buono e il cattivo tempo: sarebbe come se la FIAT avesse l'esclusiva della produzione, importazione e vendita delle automobili.
Il controllo dello Stato sarebbe difficile, e ciò potrebbe provocare, ad esempio, problemi di impatto ambientale difficilmente ora prevedibili: tra questi potrebbero essere gli usi impropri dell'energia, oppure sprechi, utilizzo di tecnologie a bassa efficienza, ecc.
La stessa Commissione antitrust ha messo in guardia contro i rischi derivati dalla vendita di una s.p.a. che agisce in regime di monopolio; analoghi rilievi giungono anche dalle autorità europee.
Il referendum si propone di evitare che un monopolio pubblico si trasformi in un ancor più pericoloso monopolio privato.
Governo e parlamento saranno quindi chiamati ad elaborare una nuova regolamentazione del settore, la quale preveda espressamente la promozione del risparmio energetico e dell'uso delle fonti rinnovabili, perché divengano l'obiettivo prioritario della politica energetica del nostro Paese, che così potrà ottemperare agli impegni assunti in sede internazionale sulla riduzione delle emissioni di CO2.
Altri obiettivi della politica energetica dovranno essere lo sviluppo di tecnologie innovative a basso impatto ambientale, la promozione della competitività nel mercato e l'efficienza nei servizi, una liberalizzazione autentica verso i mercati di importazione ed esportazione energetica.


8 Golden Share


L a legge oggi in vigore sulle procedure di privatizzazione prevede che nel caso delle società che operano nei settori della difesa, delle telecomunicazioni, dei trasporti, delle fonti di energia e degli altri pubblici servizi (le cosidette "public utilities") lo Stato possa riservarsi alcuni penetranti poteri speciali sulle società privatizzate, anche dopo la perdita del controllo sulle stesse.
In particolare lo Stato può riservarsi (oltre a minori facoltà di controllo e "gradimento" su alcuni atti amministrativi e gestionali) un vero e proprio potere di veto sull'adozione di delibere di particolare rilevanza (scioglimento e messa in liquidazione, trasferimento dell'azienda, fusione e scissione, cambiamento dell'oggetto sociale, trasferimento della sede all'estero, modificazioni statutarie relative ai poteri speciali riservati allo Stato), ed infine il potere di nominare uno o più amministratori e un componente del collegio sindacale.
Lo Stato ha anche un potere di "gradimento" sull'ingresso di soci in posizione rilevante; e poiché evidentemente esso potrà esercitare questo diritto solo dopo l'assunzione della partecipazione, si capisce bene a quali inconvenienti tale procedura potrà portare ai danni dell'acquirente.
L'istituto della "golden share" è ripreso dall'esperienza di privatizzazione britannica ma, rispetto a questa, presenta significative differenze.
Nel caso inglese, la "golden share" fu utilizzata nella privatizzazione di alcune imprese a carattere assolutamente strategico per il paese (difesa, aeronautica) mentre la legge italiana ne dilata l'uso a settori economicamente importanti ma che nulla hanno a che vedere con la sovranità nazionale, e ne prolunga nel tempo l'applicazione: le società così privatizzate potrebbero restare sotto la "protezione" pubblica anche a tempo indefinito.
Dopo tanta fatica per avviare il superamento delle partecipazioni statali, la "golden share" all'italiana arriva quasi a configurare un nuovo modello di intervento pubblico nell'economia: perfino più perverso delle PP.SS., perchè ora lo Stato potrà esercitare i suoi poteri di veto e condizionamento a tempo indeterminato, senza però partecipare al capitale di rischio dell'impresa.
E poiché l'esercizio di questi poteri, viene ribadito, deve tener conto degli "obiettivi di politica economica e industriale del paese", la "golden share", da strumento di mera garanzia diventa un mezzo per finalizzare la gestione delle ex imprese pubbliche al perseguimento di obiettivi politici...
Ammesso e non concesso che la "golden share" fosse necessaria, occorreva introdurla come semplice strumento di garanzia, utile tutt'al più per assicurare in particolari circostanze e per un tempo determinato linearità e trasparenza nelle operazioni che si svolgono nella società privatizzata, con l'obiettivo di "abituarla" gradualmente alle dinamiche di mercato.
Come uno strumento a tutela del mercato, insomma, e non contro di esso.
In Italia, invece, la "golden share" è concepita come uno strumento vincolante, al fine di indirizzare gli assetti societari delle società formalmente privatizzate verso esiti e comportamenti graditi all'ex azionista pubblico, cioè lo Stato (cioè, i partiti).
La "golden share" all'italiana è, o rischia di essere, il grimaldello per irrigidire il mercato e per proteggere interessi consolidati.
Per garantire la tutela degli interessi pubblici coinvolti nella privatizzazione di imprese operanti nel settore dei pubblici servizi, la stessa legge sulle procedure di privatizzazione le subordina alla istituzione di organismi indipendenti, per la regolamentazione delle tariffe e il controllo sulla qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico.
Tale procedura appare sufficiente a garantire questi ultimi (ad esempio, in materia di regolazione delle tariffe e degli standard dei servizi) e rende perfettamente inutile il mantenimento della "golden share".
In un sistema che riconosca il libero mercato, lo Stato deve poter esercitare anche nei settori delle "public utilities" una facoltà di regolazione e vigilanza, senza necessità di disporre di poteri di ingerenza sulla gestione e sugli assetti proprietari.
Cedere la proprietà e riservarsi poteri così incisivi vuol dire non aver fiducia nei meccanismi di mercato, e sopratutto nelle capacità dello Stato ad agire come suo regolatore, sostenuto da una forte e consapevole classe politica.



9 PATTI IN DEROGA


L a conoscono bene - e certo ne sono ancora scandalizzati - tutti quegli italiani che hanno dovuto stipulare un contratto di locazione in deroga alla legge n. 392/78, insomma in deroga all'equo canone.
E' la disposizione secondo la quale, per questa stipula, le parti devono farsi assistere da una o l'altra delle "organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale".
Quando, appunto, due persone o enti stanno stipulando uno di tali contratti, ecco che arriva il rappresentante (o i rappresentanti) di uno di questi "sindacati", e mette la sua firma sotto il foglio.
Riscuote, per questo, una taglia.
Non fa altro.
Non deve fare altro.
Solo intascare, per la sua organizzazione, la taglia.
Come uno di quei banditi che, nei tempi oscuri, riscuoteva il pedaggio dai viaggiatori di una strada solitaria.

Il corrispettivo, magari mascherato da "iscrizione", che ciascuna delle parti contraenti deve versare oscilla attorno alle 100.000 lire.
Questa fantomatica iscrizione (estorta!) viene assunta come requisito indispensabile per poter godere dell'"assistenza". Se vuoi la casa, insomma, devi "iscriverti" al racket.
Un racket ufficiale.
L'intervento sindacale in un rapporto di natura privatistica (come è un contratto di locazione) si può inquadrare nello schema dell'arbitrato irrituale, ovvero in una peculiare attività sindacale riconosciuta dalla legge come istituzionale e intermedia tra la sfera individuale e quella collettiva.
Ma non c'è una buona ragione che giustifichi la necessità di un arbitrato né di una intermediazione nel momento in cui sia già stato raggiunto l'accordo tra le parti sugli elementi fondamentali del contratto.
La norma da abrogare con questo referendum attribuisce alle associazioni sindacali la funzione di una pura e semplice mediazione parassitaria, retribuita con una somma che non può non essere considerata - in quanto pagamento di una prestazione superflua, imposta per legge - alla stregua di una vera e propria "tangente" di Stato, o se si preferisce di un "balzello", iniquo e ingiustificato.

Unico scopo della norma sembra così essere quello di finanziare surrettiziamente i sindacati. Insomma, questi hanno la facoltà di stipulare contratti in deroga a una legge - l'equo canone - di cui si riconosce il pressoché totale fallimento e che viene tenuta in vita al solo fine di garantirne la deroga!
I sindacati si vedono così garantiti introiti, che sono in costante crescita, per il fatto che i contratti di locazione stipulati in deroga crescono ogni anno: nel solo 1994 ne sono stati stipulati circa 250.000, portando alle burocrazie sindacali decine di miliardi.

Di fronte ad un business di queste dimensioni, le organizzazioni della proprietà edilizia e dei piccoli e grandi proprietari hanno preferito fare un accordo con i potenti e ricchi sindacati degli inquilini, e abbandonare la lotta contro l'equo canone.
Che fine hanno fatto le denuncie di incostituzionalità, le critiche allo "statalismo" ispiratore e le denuncie del suo fallimento?
Tutto, e in primo luogo gli interessi dei cittadini, è stato sacrificato sull'altare dell'assistenzialismo e dei privilegi del parastato sindacale.


10 RITENUTA D'ACCONTO


A ttualmente, per legge, ogni datore di lavoro è tenuto a trattenere mensilmente una quota della retribuzione d'un suo lavoratore e a versarla allo Stato a titolo di acconto delle imposte dovute dal lavoratore stesso.
Il conguaglio definitivo viene effettuato successivamente, su base annuale.

Il referendum, abrogando alcune parti del DPR 600 del 29 settembre 1973, mira ad eliminare questo sistema di pagamento delle imposte dovute dal lavoratore dipendente.
Se il referendum vincesse, i datori di lavoro non dovrebbero più fungere da esattori, e sarebbe lo stesso lavoratore a fare (a maggio e a novembre) i versamenti dovuti, insieme e con le stesse modalità di tutti gli altri cittadini.
Sia i datori di lavoro che il lavoratore ne trarrebbero sicuri, cospicui vantaggi:
quelli, perché verrebbero liberati da una serie di costosi, farraginosi adempimenti, e non sarebbero più a rischio, come oggi, di dover subire sanzioni penali in caso di errore;
il lavoratore dipendente, a sua volta, oltre a ricevere la retribuzione nella sua interezza ("al lordo"), e ad essere così posto in grado di valutare quale sia il corrispettivo che effettivamente riceve per il suo lavoro, sarebbe tenuto a pagare le imposte in due tempi e non, come adesso, almeno dodici volte l'anno, prima e più spesso dunque delle altre categorie di contribuenti.

La contrattazione salariale, finora concentrata sul netto, si sposterebbe sul lordo e questo farebbe sì che anche lo Stato entri nel negoziato, come controparte dei lavoratori.
Altri correttivi indiretti verrebbero introdotti dalla vittoria referendaria: per esempio, per quanto concerne la lentezza delle restituzioni ai contribuenti che hanno pagato più del dovuto.

< Nel 1995 la Corte Costituzionale, richiamandosi al secondo comma dell'art.75 della Costituzione (il quale stabilisce che le leggi tributarie e di bilancio non possono essere assoggettate a referendum) dichiarò questo referendum inammissibile.
Noi ripresentiamo il quesito ritenendolo invece pienamente legittimo, in quanto esso si limita a modificare le modalità di riscossione del tributo, non il tributo in sé: riguarda insomma leggi tributarie procedurali, non sostanziali.
La vittoria del "sì" non avrebbe ricadute dirette negative sul bilancio dello Stato.
Il sistema fiscale realizzato attraverso la vittoria referendaria sarebbe, sotto il profilo pecuniario, identico all'attuale, perché il costo del lavoro, la remunerazione netta e il gettito per l'erario resterebbero invariati. Su questa evidenza chiediamo una ulteriore pronuncia della Corte, in un dialogo civile e democratico.

La vittoria del "sì" rappresenterebbe peraltro una grossa spinta per il passaggio da una fiscalità occulta e fraudolenta ad una fiscalità trasparente e consapevole.
Oggi infatti circa l'80% delle imposte è invisibile, coloro che le versano non sanno di pagarle. Per ogni milione di tasse pagate da un contribuente (di cui questi si rende conto) lo Stato glie ne ha portati via altri quattro senza che egli possa accorgersene. Gli sono stati prelevati, insomma, con una vera e propria frode.

Un semplice esempio: nel 1992 ogni italiano ha prodotto per un valore medio di oltre 26 milioni di lire. Di questi, 15 milioni e 200mila gli vengono prelevati dal settore pubblico: per sé, gli restano 11 milioni. Per capire come questo è potuto succedere, basta fare un po' di conti. Quel cittadino, convinto di fare un buon affare, ha acquistato (per ipotesi) titoli di Stato: in realtà ha pagato una imposta, perché lui stesso dovrà contribuire a ripianare il debito che lo Stato ha contratto con lui. Il deficit è un'imposta occulta.
I contribuenti devono sobbarcarsela, al di fuori della loro volontà: nel 1992, versando per 2.721.000 lire a testa. Si aggiungono poi le imposte indirette, invisibili sia perché nascoste nel prezzo dei prodotti acquistati, sia perché diluite in modo continuo nel tempo: sono calcolabili per 3.967.000 lire a testa.
Vi sono quindi i contributi "sociali", che essendo obbligatori sono in realtà dei "tributi" e, venendo in larga misura pagati dal datore di lavoro come sostituto d'imposta, risultano anch'essi invisibili al contribuente: via altre 3.967.000 lire!
E poi le imposte dirette, che sarebbero le più visibili se non vi fosse la ritenuta alla fonte, grazie alla quale il lavoratore è portato a fare i suoi conti solo partendo dalla retribuzione netta effettivamente incassata, non considerando però quella parte del reddito che ha versato al fisco tramite il datore di lavoro, con il sostituto d'imposta: qui siamo, in media, sulle 4.362.000 lire. Se a tutto questo aggiungiuamo altre 1.186.000 lire prelevate al cittadino dallo Stato per altre vie, si arriva a quei 15.200.000 lire di cui abbiamo parlato.

La democrazia esige fra le altre cose che il cittadino posa controllare il modo come il governo spende i denari di tutti. Un sistema fiscale che preleva dalle tasche del contribuente ben oltre la metà del suo reddito senza che costui possa rendersene conto, è antidemocratico ed anzi - aggiungiamo - fraudolento. Se ci fosse possibile controllare con chiarezza le imposte, vedremmo subito che attualmente ognuno di noi deve devolvere i frutti di sette mesi del suo lavoro allo Stato, per campare poi con quanto guadagna negli altri cinque. Saremmo spinti, è evidente, a chiedere conto allo Stato o al Governo di questo taglieggiamento, che impoverisce non solo noi ma il paese, perché sottrae mezzi alla produttività.

Con la vittoria del referendum i lavoratori dipendenti sui quali grava la maggior parte del carico fiscale, messi finalmente in condizione di sapere esattamente quanto versano allo Stato, potrebbero esercitare una decisiva spinta per realizzare le riforme che oggi non si vuole realizzare. Questo è un obiettivo primario del referendum: restituire al cittadino il potere di decidere quanto e come il Governo deve spendere. Chiarezza di reciproci rapporti, accettazione consapevole delle proprie responsabilità di fronte alla comunità e al paese ma anche, reciprocamente, rendiconto continuo della spesa pubblica: sono i risultati cui punta questo referendum di grande importanza sul piano economico ma anche etico, morale.


11 SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE


La proposta di referendum punta a introdurre la libertà di scelta tra iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) o ad una assicurazione privata, mantenendo comunque fermo l'obbligo per tutti di avere una forma di assicurazione sanitaria.
Pubblico e privato verrebbero quindi messi in concorrenza. In particolare, si pensa che la concorrenza tra le assicurazioni private porterebbe ad una drastica riduzione dei costi delle prestazioni mediche (in Italia molto più alti che negli altri paesi europei).
Il venire meno dell'obbligo generalizzato di iscrizione al SSN non farebbe decadere automaticamente l'erogazione del servizio pubblico, ma solo il regime di monopolio in cui esso opera.
Chi scegliesse una forma di assicurazione privata non sarebbe più obbligato a versare annualmente il contributo di legge per l'assistenza di malattia, anche se continuerebbe a finanziare il SSN attraverso il prelievo fiscale.

Lo scopo del referendum è insomma di creare le condizioni per una effettiva competitività nel campo sanitario tra pubblico e privato, come anche all'interno del pubblico e all'interno del privato.
Ne deriverebbe una riqualificazione complessiva dell'offerta di assistenza medica.
Nel settore pubblico, l'introduzione di forme di concorrenza interna porterebbe una razionalizzazione delle strutture, una responsabilizzazione del personale, la valorizzazione della professionalità e una drastica riduzione degli sprechi.
Per non perdere clienti, e quindi incassi, le strutture sanitarie pubbliche dovrebbero entrare nello spirito della logica di mercato, diventando vere e proprie aziende erogatrici di servizi.
Sarebbe loro interesse affidarsi a persone competenti e capaci, adottare una gestione più trasparente e procedure più agili, creare ambienti più gradevoli e accoglienti al posto degli ospedali-lager, umanizzare e personalizzare le prestazioni affidandosi a volte anche, per abbattere i costi, all'assitenza domiciliare.

Tutti questi miglioramenti andrebbero a vantaggio dell'utente.

Una volta che le assicurazioni fossero libere di scegliere e contrattare qualità e costo delle prestazioni nella gara tra pubblico e privato, questi dovrebbero entrare in competizione per venire incontro alla domanda, prevedendo una serie di servizi più ricchi, articolati, precisi, efficienti per il paziente da loro ricoverato.
Essi saprebbero che, di fronte all'insoddisfazione di quest'ultimo, l'assicurazione potrebbe annullare il contratto, per rivolgersi altrove.

Effetti collaterali potrebbero anche esserci nella rivalutazione delle terapie non convenzionali che oggi, anche quando valide, sono delegittimate ed emarginate dalla monocultura dominante nelle università e negli ambienti medici.
Potrebbero infine venire stroncati quei vergognosi fenomeni di malcostume e di affarismo che si hanno nell'ambito dell'attuale mercato protetto della sanità e dell'assistenza private proprio a causa della mancanza di una reale concorrenza con il settore pubblico e all'interno dello stesso settore privato. Anche la formazione universitaria e infermieristica dovrebbe diventare meno astratta e adeguarsi alle concrete necessità operative della pratica terapeutica quotidiana.

Da ciò troverebbero vantaggio proprio i più bisognosi, che non possono permettersi cliniche di lusso e sono obbligatoriamente sottoposti a quello che è stato definito, più che un servizio, un "disservizio" pubblico, meritandosi l'appellativo di "malasanità".

Il Servizio Sanitario Nazionale si giustificava con l'intento nobilissimo di garantire a tutti, e sopratutto ai meno abbienti, un'assistenza sanitaria di buon livello.
Ma la pratica attuativa ha provocato nei fatti una disuguaglianza: chi può, i ricchi, coloro che possono pagare due volte (una volta con le tasse e la seconda quando esborsano le laute rette delle cliniche private) si rivolgono altrove, non vanno nell'ospedale pubblico: oltre la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica fa ricorso alle prestazioni dei privati. E' il segno del fallimento dell'attuale servizio sanitario. Si aggiunga che al suo interno i costi previdenziali e gli oneri aggiuntivi incrementano ulteriormente il costo del lavoro e alimentano la disoccupazione.

Sicuramente, la riforma del '78 ha fallito anche per altre ragioni:i ritardi nell'emanazione delle norme regionali di attuazione e nella adozione degli atti di programmazione, ritardi provocati dalle potenti lobby mediche e private; la lottizzazione delle USSL, i cui Comitati di gestione erano di nomina politica, almeno fino a pochi anni fa; l'esplosione incontrastata della spesa, attribuibile alla deresponsabilizzazione delle Regioni e delle stesse USSL; la rigidità amministrativa e gestionale che è tipica di ogni apparato burocratico pubblico, ecc.

Il compito dello Stato dovrebbe e dovrà essere, con la riforma che proponiamo attraverso il referendum, quello di garantire davvero a tutti la salute "come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" (secondo quanto recita l'art. 32 della Costituzione) operando per rimuovere le cause delle malattie, l'inquinamento, le sofisticazioni alimentari e non alimentari, il degrado ambientale, le cattive condizioni igieniche delle città e dell'ambiente, l'emarginazione, la violenza urbana e sociale, ecc. Insomma, prevenire più che curare: perché, come è noto, un organismo sociale deteriorato alimenta le patologie individuali.


12 PUBBLICO REGISTRO AUTOMOBILISTICO


L' idea di un referendum per l'abolizione del Pubblico Registro Automobilistico (PRA) è stata per la prima volta avanzata dal mensile "Quattroruote" e da Associazioni di automobilisti (la A.U.A, ad esempio), trovando immediato ampio consenso presso vari Enti ed associazioni di categoria nonché presso un gran numero di singoli cittadini, che hanno scritto e telefonato al mensile per caldeggiare ed appoggiare l'iniziativa.

Raccogliendo l'indicazione, i Club Pannella-Riformatori hanno promosso la campagna, mettendo a disposizione della rivista, delle associazioni, degli automobilisti e dei cittadini il supporto di conoscenza, di esperienza organizzativa e tecnica necessario (e che nessun'altra struttura o forza civile o politica possiede) per far sì che il referendum possa essere tenuto superando le difficoltà che si presentano ai vari livelli.
Tra i Riformatori dei Club Pannella, "Quattroruote" e le altre forze civili interessate è intervenuto così un accordo che ha consentito di mettere in comune le risorse e i mezzi necessari.
Ma nessuna delle strutture che partecipano alla iniziativa, nessuna delle Agenzie automobilistiche che metteranno a disposizione i loro locali, il loro tempo e le loro energie per la raccolta delle firme dovrà sentirsi in alcun modo politicamente legata al Movimento dei Club Pannella-Riformatori.

Da oltre mezzo secolo, il PRA (Pubblico Registro Automobilistico, gestito dall'ACI) "certifica" chi è il proprietario di una vettura. I nomi di tutti i proprietari di vetture già figurano però negli archivi elettronici della Motorizzazione civile, dal momento in cui essa assegna le targhe e immatricola i veicoli.
Le pratiche che vengono svolte presso il Registro Automobilistico sono dunque perfettamente inutili, in quanto sono identiche a quelle d'obbligo presso la Motorizzazione.

A che serve dunque il doppione del PRA?

Diciamolo subito: a raddoppiare gli impacci burocratici e i costi in tempo e in denaro di ogni passaggio di proprietà, e a sottoporre i cittadini al rischio, purtroppo non infrequente, di sviste ed errori che hanno conseguenze spiacevoli e sempre fastidiose.
Fino ad oggi, i circa 40 milioni di automobilisti italiani nulla hanno potuto fare per liberarsi di questa struttura, utile solo per i giochi di potere e agli interessi di parte che ruotano attorno ad essa sia nel mondo politico che negli ambienti burocratici del Ministero delle Finanze.

Il PRA fu creato con un Regio Decreto del 1927 per agevolare le vendite a rate degli automezzi, e venne affidato in gestione all'ACI.
Il "registro" era allora poco più di un albo di appassionati, poiché in Italia circolavano all'incirca 100000 vetture. Oggi, le ipoteche non sono più praticamente utilizzate dall'industria automobilistica (sono state sostituite dal leasing); e tuttavia il Registro è sopravvissuto ad ogni critica e a ogni tentativo di abolizione, intoccabile e vessatorio.
Esso ritiene di essere il solo e unico depositario dei diritti reali di proprietà sui "beni mobili registrati", come vengono definite (e questa è già una anomalia tutta italiana rispetto agli altri Paesi) le automobili, e lo strumento "preordinato ad assicurare la pubblicità legale dei diritti patrimoniali sugli autoveicoli".

Il cattivo funzionamento (per non dire altro) dell'ACI ha una casistica infinita. Ad es., nel 1992, il governo decise di riconoscere all'ACI ("ente morale senza fini di lucro"!) una maggiorazione di 12 miliardi sul compenso che l'erario gli versa per la sua attività di riscossione dei tributi.
La maggiorazione veniva giustificata in quanto l'ACI aveva denunciato un sovraccarico di lavoro conseguente al fatto che i pagamenti del bollo presso i suoi sportelli erano saliti ad 11 milioni dai 5 previsti. Ma perché tanti italiani avevano preferito rivolgersi agli sportelli ACI invece di recarsi agli sportelli postali, capillarmente diffusi su tutto il territorio nazionale?
Era accaduto semplicemente questo, che proprio l'ACI non era riuscita a stampare e a distribuire in tempo il libretto fiscale necessario per effettuare il versamento presso la Posta...
Altri esempi potrebbero essere fatti ma ogni automobilista, o quasi, può testimoniare dell'inefficienza del PRA.
Basti pensare che esso ingiungeva, agli eredi che volessero rottamare la vettura di un parente deceduto, l'obbligo di intestarsela prima di poterla demolire!

L'ACI viene gestita con metodi quanto meno confusionari.
La Corte dei Conti ha più volte rilevato errori, irregolarità, o anche peggio, nella contabilità di parecchi Automobil Club provinciali, che molto spesso non hanno nemmeno inviato in tempo debito, negli anni trascorsi, i loro bilanci. In alcuni casi sono stati ventilati veri e propri reati di concussione, di peculato ed abuso d'ufficio.
Recentemente, anche il Ministero delle Finanze ha deciso di vederci chiaro in questa farraginosa, caotica e deficitaria gestione contabile.
Eppure, nonostante tutto questo, nello stesso giorno in cui questo referendum era presentato in Cassazione, veniva reso noto il testo della Finanziaria 1996: ebbene, all'art. 40, c'è un comma che di fatto impone, o consente, al Ministro delle Finanze di rinnovare per altri dieci anni la convenzione con l'ACI per la riscossione ed il controllo delle tasse automobilistiche (pagate in virtù della iscrizione al PRA).
Se la Finanziaria sarà approvata così come è al momento in cui scriviamo resteremo alla mercé dell'ACI per altri dieci anni almeno. Come ha scritto "Quattroruote", firmare per questo referendum "sarà il modo più civile per presentare il conto dei troppi torti subìti a causa del Pubblico Registro Automobilistico" da milioni di italiani.

Alla raccolta delle firme aderiscono (alcune mettendo anche a disposizione le proprie strutture) il Movimento Consumatori, la AUA (Associazione Utenti Automobilistici) già ricordata, il Movimento Difesa del Cittadino,l'ACO, Associazione Consumatori Utenti, la Federconsumatori, la LIFE, Liberi Imprenditori Federalisti Europei, l'UNASCA, l'ASSOAUTO, la FEDERTAAI, la SERMETRA, gli AMICI DELLA TERRA, la sezione di Milano dell'ARCI.



13 LEGGE ELETTORALE CAMERA


Questo referendum, assieme a quello n. 14 (sulla legge elettorale per il senato) mira a modificare il sistema elettorale, per far sì che deputati e senatori vengano eletti - tutti - con il sistema uninominale maggioritario a turno unico ("all'americana"!), senza più residui e pasticci proporzionali.

Le leggi elettorali votate dal Parlamento per adempiere alla indicazione uscita dal referendum del 1993 non sono che un compromesso.
Quello che è successo a partire dalle elezioni del 27 marzo 1994 dimostra chiaramente che tali leggi non riescono a garantire all'Italia un sistema politico basato su schieramenti contrapposti, di volta in volta collocati al governo o all'opposizione.
Anzi: peggiorano perfino la situazione.
Le elezioni regionali dell'aprile 1995, anch'esse fatte con un sistema fortemente proporzionalistico, hanno messo in evidenza che cosa si vuole ottenere mantenendo in piedi meccanismi elettorali di tipo proporzionalistico: piano piano, sono cominciati a riapparire i vecchi partiti, sotto formule e sigle diverse dietro alle quali però si intravedevano volti e nomi ben noti e che si sperava non dovessero più riapparire sulla scena.
Abbiamo persino visto tornare in ballo pezzi di Democrazia Cristiana (Buttiglione, i CcD da una parte, il PPI di Bianco, Bindi, Mancino e magari De Mita dall'altra), oggi ancora divisi ma pronti a rimettersi assieme domani per riformare il vecchio partito, la indimenticabile "balena bianca"...

Dopo la vittoria del referendum per il sistema elettorale del Senato, il Parlamento si trovò costretto a modificare anche quello della Camera. L'Italia fu suddivisa in 26 circoscrizioni (più il collegio uninominale della Val d'Aosta).
In ogni circoscrizione il 75% dei seggi viene attribuito con il sistema maggioritario, il restante 25% è ripartito tra le liste concorrenti, con il sistema proporzionale. I collegi uninominali sono 475, i seggi assegnati proporzionalmente sono 155.
L'elettore dispone di due voti: uno per la parte maggioritaria ed uno per quella proporzionale.
Le due parti non sono però nettamente separate tra di loro. Intervengono a questo punto, infatti, alcuni marchingegni bizantini, escogitati dal Pds per mantenere, tutto o in parte, il proprio potere. Dicono che i nostri quesiti referendari sono complicati. Parlano coloro che hanno inventato leggi elettorali che nessuno capisce, che confondono le idee e favoriscono solo i burocrati di partito.

Non proveremo neppure a spiegarvi attraverso quali altri complicatissimi calcoli si arriva finalmente ad eleggere un deputato.
Cerchiamo invece di capire bene invece quali sono le conseguenze di questa legge.
Quelli di Camera e Senato fanno sono sistemi elettorali "misti" perchè mischiano due formule: la maggioritaria (per i 3/4) e la proporzionale (per 1/4).
La commistione vanifica l'effetto proprio del maggioritario, ossia la drastica riduzione del numero dei partiti, e impedisce la formazione di maggioranze rapide e chiare: dopo le elezioni, infatti, i partiti si riprendono il loro "potere di coalizione" e tornano ad essere arbitri della formazione del governo.

A causa del particolare sistema di conteggio dei voti (il cosidetto "scorporo", parziale o totale che sia) gli effetti maggioritari sono ancor più attenuati: se per la quota maggioritaria i partiti sono costretti a stare insieme, in quella proporzionale sono spinti a dividersi, a presentarsi da soli e a riaffermare ciascuno la propria identità, il proprio simbolo e le proprie differenze (anche rispetto agli alleati della parte maggioritaria!), sia per ottenere i voti necessari a conquistare seggi nella quota proporzionale sia anche per influenzare il voto sulle candidature nei collegi uninominali.

Questa complicata e diabolica formula (il "mattarellum", dal nome del relatore della legge alla Camera, l'allora democristiano Sergio Mattarella) proporzionalizza dunque anche la parte maggioritaria, inquinando l'intero meccanismo elettorale e garantendo la soppravvivenza (se non addirittura il rafforzamento) della piovra partitocratica.

L'obbligo (per la Camera) di collegamento fra candidati nel maggioritario e liste di partito nella proporzionale assegna di fatto alle segreterie dei partiti la scelta delle candidature, rendendo impossibili anche nei collegi uninominali la scelta di personalità indipendenti. Insomma, l'elettore viene spogliato di ogni potere e peso politico. Va a votare, ma non partecipa alla designazione del candidato. Ma anche il candidato non può stabilire con l'elettore un rapporto diretto, perché è legato a uno o più partiti del suo schieramento, i quali lo hanno designato e lo controllano.

Se fosse costretto a mettere in luce direttamente le proprie capacità e la propria storia personale (come negli Stati Uniti), gli elettori sarebbero più attenti, più stimolati ad informarsi ed a fare una scelta consapevole e ponderata.
Ma, grazie allo schermo opposto dal partito (o dai partiti), le cose procedono nel senso opposto: il confronto non è sui fatti, sulle persone e sulle idee, ma sull'appartenenza ad una fazione.


Se invece il sistema elettorale fosse tutto maggioritario porterebbe al formarsi di due o tre blocchi, capaci di esprimere forti candidati alla Presidenza del Consiglio.


14 LEGGE ELETTORALE SENATO


Il 18 aprile 1993 si svolse in Italia un referendum in materia elettorale, e l'Italia disse che bisognava abbandonare il vecchio sistema proporzionale sul quale ricadevano anche le disfunzioni e la corruzione di Tangentopoli. Il parlamento dovette cambiare la legge elettorale per il Senato, per adeguarla ai risultati del referendum.

Così, il 27 e 28 marzo '94 il 75% dei senatori venne eletto con un sistema maggioritario uninominale ad un turno. Il restante 25% era però eletto ancora con un meccanismo di tipo proporzionale. Questo accadde, perché in Parlamento si riuscì a far passare una legge che rispettava solo in parte la volontà e l'indicazione referendaria.

Vediamo sommariamente cosa dice tale legge (quella che noi vogliamo, con questo referendum, abrogare).
232 sono i collegi senatoriali in cui si applica l'uninominale, 83 quelli attribuiti con il proporzionale. I collegi sono riuniti su base regionale e non c'è connessione tra le diverse regioni (come se in ogni regione ci fosse un sistema elettorale a sè).
Per la parte maggioritaria la scelta è semplice: in ciascun collegio viene eletto chi prende più voti (all'"americana", appunto).
Negli 83 collegi "proporzionali", invece, tutto si complica: l'elettore deve tracciare il suo voto su una scheda nella quale, accanto ad ogni candidato, appare il simbolo di un partito o di una coalizione di partiti.
Votando per un candidato, si sceglie nello stesso momento anche il simbolo corrispondente, al quale sono collegati candidati negli altri collegi uninominali. Così la partitocrazia, con la sua incredibile artimetica, comincia a imbrogliare le carte.

Vengono infatti sommati, su base regionale, i voti dei candidati nei collegi uninominali aventi lo stesso simbolo; a questa cifra si sottraggono poi i voti dei candidati dello stesso partito (o coalizione) che nei rispettivi collegi siano risultati vincitori (è il cosiddetto "scorporo totale"); quindi vengono ripartiti i seggi.
Sono i meccanismi di un vecchio e collaudato metodo, il "metodo d'Hondt": la cifra elettorale di ciascun partito o coalizione è ora divisa prima per 1, poi per 2, per 3, per 4, eccetera.
Vengono scelti i quozienti più elevati e all'interno di ciascun partito o coalizione risultano eletti i candidati con la più alta "cifra individuale" (cioè i voti ottenuti, in rapporto al totale dei voti validi nel rispettivo collegio)...

La semplicità e la chiarezza di un sistema elettorale, che dovrebbe essere principalmente lo strumento per scegliere chi ci governa, sono caratteristiche dalle quali non si può prescindere, se si vuole restituire lo scettro del potere all'unico vero sovrano: il cittadino.

Per questo insistiamo.

Dopo la cattiva prova della legge attuale, che ha prodotto una Camera inadeguata e ha influenzato la scelte della legge elettorale per le Regionali del 23 marzo scorso, noi proponiamo ancora due referendum elettorali, per adottare anche da noi l'unico sistema che corrisponde a tali caratteristiche: quello maggioritario ad un turno, che riduce al minimo la frammentazione della rappresentanza parlamentare (come in Gran Bretagna, in Canada e negli Stati Uniti) e fa meglio corrispondere la volontà del cittadino al risultato effettivo.
La vittoria su questo referendum, assieme a quello per la riforma della legge elettorale della Camera (referendum n.1), costituirebbe una spinta decisiva per varare successivamente le riforme (come la riduzione del numero dei parlamentari, il Presidenzialismo ed il Federalismo) che tutti dicono necessarie per realizzare nel nostro Paese un autentico sistema democratico, anglosassone e "americano".

In uno Stato federale, un capo dell'esecutivo eletto direttamente dal popolo può essere elemento di unificazione nazionale e di forte autorità centrale che contrasti le spinte centrifughe, ma questo non si potrà ottenere finchè starà in piedi una legge elettorale che spappola il Parlamento: lasciando le cose come sono rischieremmo di avere piuttosto un presidenzialismo "sudamericano", con tutti gli inconvenienti del caso...
Per arrivare a un Governo democratico ma forte come negli Stati Uniti, occorre avere una legge elettorale che lo consenta: quella uninominale maggioritaria a turno unico, appunto!


15 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA


La Costituzione (art. 105) ha previsto il Consiglio Superiore della Magistratura quale organo che garantisca l'indipendenza della magistratura, sottraendo le questioni direttamente riguardanti la sua organizzazione (avanzamenti di carriera, trasferimenti, provvedimenti disciplinari e così via) ai condizionamenti politici e partitici.
Il CSM è formato per i due terzi da magistrati eletti dai magistrati stessi; per il residuo terzo, invece, da membri eletti dal Parlamento: nella visione del Costituente, tale quota di componenti "laici", non magistrati, avrebbe assicurato il collegamento del Consiglio con gli interessi generali, impedendo il suo trasformarsi in un organo meramente "corporativo"; e per evitare che la quota di eletti dal Parlamento rendesse eccessiva l'influenza dei partiti, si volle che i componenti non appartenenti alla magistratura venissero comunque scelti fra i professori universitari ordinari di materie giuridiche o fra avvocati esercitanti la professione da almeno quindici anni: la formula avrebbe dovuto garantire che l'organo di autogoverno dei magistrati non si trasformasse in uno strumento attraverso il quale i partiti - la politica, il "potere"! - potessero mettere sotto controllo la megistratura stessa.

A quasi cinquant'anni dalla Costituente, la storia del CSM è invece proprio la storia della sua progressiva invasione da parte del sistema dei partiti: con il paradosso che, a funzionare come cavallo di Troia, non è stata la così sospettatata quota parlamentare, quanto proprio la componente "togata".
Nell'ambito della magistratura si crearono ben presto schieramenti ricalcati su quelli partitici: la sua vita associativa fu, a partire dagli anni `60 - quindi, non appena il nuovo CSM delineato dalla Costituzione fu entrato in funzione - caratterizzata da una notevole turbolenza; nacquero nel seno dell' Associazione Nazionale Magistrati le "correnti", che cominciarono a dotarsi di propri organi dirigenti, di uffici stampa, etc., a mo' di veri e propri "partiti dei magistrati".

Questi partiti dei magistrati, man mano che si strutturavano e si consolidavano, cominciarono anche a brigare perchè i loro "corrispettivi" in Parlamento si dessero da fare per consegnare interamente a loro lo strumento stesso del potere: appunto il Consiglio Superiore della Magistratura divenuto intanto potentissimo centro di decisione per quanto riguardasse reclutamento e carriere dei magistrati. L'ostacolo maggiore perché le "correnti" si impadronissero del CSM era il sistema elettorale in vigore per la componente "togata" : si trattava infatti di un sistema uninominale che, ovviamente, riduceva di molto il peso delle organizzazioni correntizie, valorizzando la figura del singolo candidato.
Nel 1967 si ebbe la prima modificazione di quel sistema, intesa a diminuire il peso, in Consiglio, dei magistrati di grado più elevato; nel 1975 il disegno fu completato con l'adozione di un sistema elettorale proporzionale: le correnti - i "partiti" - entravano ufficialmente nel CSM.
Da quel momento, a contare nel Consiglio non sarebbe stato più il magistrato Tizio o Caio, quanto piuttosto la corrente, il "partito", di cui Tizio o Caio facesse parte e che fosse da lui rappresentata: da destra a sinistra troviamo Magistratura Indipendente, Unità per la Costituzione, Magistratura Democratica... perfino i Verdi! E come in tutti i parlamenti eletti con il sistema proporzionale, la partitocrazia prende il sopravvento e le strutture finiscono per contare più degli uomini.

Il CSM conosce persino le riunioni dei capigruppo, proprio come un parlamento. Non a caso il Consiglio Superiore della Magistratura, ormai fortemente politicizzato, ha negli anni sempre più straripato dal suo ruolo, con un'azione apparsa spesso voler affermare un principio nient'affatto previsto dalla Costituzione, ma rispondente ad una ferrea logica corporativa: e cioè che ogni decisione attinente all'ordinamento giudiziario, alla sua struttura e alla sua organizzazione, sia competenza non del Parlamento, quanto piuttosto del CSM stesso, o non possa essere presa senza il suo consenso; e che qualsiasi decisione di "politica criminale" spetti alle singole procure della Repubblica! Politicizzazione e straripamento del Consiglio sono andati di pari passo.

Nel 1987 fu per proposto un referendum per abrogare il sistema elettorale del CSM e superare il sistema proporzionale: ma la Corte Costituzionale bocciò il referendum, con l'argomento che, in tema di leggi elettorali, un referendum non possa creare "vuoti": un argomento che è contro la lettera dell'art. 75 della Costituzione (il quale non cita le leggi elettorali fra quelle non abrogabili attraverso referendum), e contro il suo spirito, che vuole appunto il referendum "abrogativo", e dunque finalizzato proprio a creare vuoti nell'ordinamento.
Noi intendiamo riproporre il quesito alla Corte, per rendere possibile il superamento di quella scandalosa giurisprudenza.

Avete dunque due ottimi motivi per firmare il referendum: consentire la riapertura della "questione Corte Costituzionale" e, in secondo luogo, rimuovere una delle cause della politicizzazione della magistratura e del suo non costituzionale trasformarsi in vero e proprio Potere.


16 RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI


Nel 1987 si tenne il referendum che mirava a far sì che il giudice il quale - per dolo o colpa grave - arrecasse un danno al cittadino fosse tenuto a risponderne sul piano civile (in altre parole, a risarcire il danno causato).
Si trattava di togliere di mezzo gli art. 55, 56, e 74 del Codice di procedura civile (codice, si ricordi, ereditato dal fascismo), i quali impedivano che il magistratofosse chiamato a rispondere in sede civile dei suoi errori, come succede a qualsiasi altro funzionario dello Stato.
I promotori di quel referendum (un comitato di cui facevano parte radicali, socialisti e liberali) intendevano far sì che trovasse finalmente applicazione anche per i magistrati l'art. 28 della Costituzione:
"I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato e agli Enti pubblici".

Una cosa risulta chiara dalla Costituzione: se un funzionario dello Stato - anche un magistrato, quindi - compie un atto in violazione dei diritti di un cittadino, deve essere direttamente responsabile nei confronti di quel cittadino: alla sua responsabilità si aggiunge - ma senza sostituirla - quella dello Stato.

La situazione in vigore prima del referendum del 1987 contraddiceva invece palesemente il dettato costituzionale: il magistrato, a differenza di qualsiasi altro funzionario, poteva essere chiamato a rispondere per dolo o truffa, o in caso di diniego di giustizia, non invece nel caso che avesse errato per colpa grave; e, in sovrappiù, la proponibilità della domanda di risarcimento era subordinata ad una autorizzazione del Ministero di Grazia e Giustizia.

La battaglia referendaria permise di condurre nel paese una grande battaglia liberale, e fu vinta alla grande. L'80% dei cittadini votò SI, indicando la volontà di poter finalmente chiamare a rispondere i giudici che emanavano mandati di cattura clamorosamente sbagliati a causa di omonimie non controllate; che ordinavano una carcerazione preventiva con leggerezza, o in base a vaghi sospetti; che insomma mettevano a repentaglio i diritti dei cittadini agendo con "colpa grave". Vale a dire, per dirla con i giuristi, con "imperizia evidente o patente ignoranza della legge".
A seguito del voto referendario ci si aspettava dal parlamento una legge che regolasse la materia rispettando il principio sancito dal voto, nella convinzione profonda che giudici "responsabili" in nessun modo significasse giudici meno "indipendenti".

Il parlamento invece letteralmente rapinò il risultato del referendum. La "legge Vassalli" (legge 13 aprile 1988, n. 117) travolgeva il principio stesso della responsabilità personale del magistrato per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato.

Secondo questa legge, il cittadino che abbia subito un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo di un magistrato non può , come sarebbe dovuto, fare causa al magistrato che lo ha ingiustamente danneggiato; deve invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso - nella persona del Presidente del Consiglio - il risarcimento del danno.
Dal canto suo, il magistrato chiamato in questione ha la possibilità di intervenire nel giudizio.
Se l'azione promossa dal cittadino danneggiato avrà successo, e il cittadino sarà risarcito, allora sarà lo Stato chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, per rivalersi su quest'ultimo del risarcimento sborsato: solo però entro il limite di un terzo di una annualità di stipendio del magistrato!

Si tratta di un meccanismo molto farraginoso, sicuramente vanificante il responso del referendum: viene ancora esclusa la responsabilità diretta del magistrato che ha sbagliato.
Perché questi sborsi una sola lira occorrerà che lo Stato venga sconfitto nella prima causa, e che vinca nel giudizio di rivalsa (l'esito di questo secondo giudizio non è determinato dal risultato del primo).

Della soluzione più netta, chiara e liberale, quella della responsabilità civile del magistrato - nei casi previsti dalla legge - nei confronti del cittadino danneggiato, non se ne parla.
La legge Vassalli ha raggiunto il suo vero scopo: ridurre al minimo le domande di risarcimento e ristabilire, in barba al referendum, un regime di irresponsabilità per i magistrati.
Attraverso il nuovo referendum, hai la possibilità di restituire al cittadino la possibilità di chiamare in causa direttamente il magistrato che abbia errato con dolo o colpa grave; e di restituire anche, ai tanti magistrati seri e preparati che non ne hanno mai avuto alcun timore, la dignità di essere responsabili dei propri atti.




17 INCARICHI EXTRAGIUDIZIALI AI MAGISTRATI


Con gli altri tre che toccano alla sfera della giustizia e della magistratura (n. 2, sul sistema elettorale del CSM; n. 10, riforma delle norme sulla carriera dei magistrati; n. 11, responsabilità civile dei magistrati) questo referendum intende favorire le condizioni perché l'amministrazione della giustizia divenga in Italia più limpida e affidabile, liberando i magistrati da condizionamenti e soggezioni che possano limitarne l'indipendenza di giudizio e intaccarne, dinanzi ad una opinione pubblica frastornata e bisognosa di certezze, l'affidabilità.

Tutti ricordano il "caso Tortora", il processo intentato dalla magistratura di Napoli al popolare presentatore televisivo, accusato di spaccio di droga.
Tutti ricordano anche come si svolse il processo, anzi i due processi che portarono alla scarcerazione dell'artista ingiustamente imputato. Ma pochi ricordano - perché della cosa la stampa (tutta, più o meno, colpevolista) preferì tacere - le accuse rivolte da Marco Pannella ad alcuni magistrati di quella città, di essere coinvolti in vicende extragiudiziarie da cui essi ritraevano lucro e favori, ma anche grave pregiudizio circa lapropria indipendenza e libertà di giudizio.

Non facciamo qui i nomi, ma tra i dati più gravi venne fuori la vicenda dei "collaudi" (affidati a quei magistrati) relativi agli appalti per la ricostruzione di Monteruscello, uno dei quartieri della Napoli colpita dal terremoto. Sul caso fu aperta anche una inchiesta e lo scandalo dilagò. Purtroppo invano, perché il Consiglio Superiore della Magistratura non ha mai voluto dare un taglio netto alla piaga degli incarichi extragiudiziari, ancor oggi dunque perfettamente legittimi, a Napoli ma non solo a Napoli.

A differenza di quanto avviene in altri paesi a tradizione (ma anche a prassi) democratica e liberale, nei quali non sono consentite ai giudici attività diverse da quelle proprie alla loro delicata funzione, in Italia moltissimi sono gli incarichi non giudiziari che i magistrati possono svolgere: arbitrati molto lucrativi (come quelli, appunto, di Monteruscello e di Napoli), incarichi di responsabilità ma di notevole rilievo anche politico presso Ministeri e altri enti pubblici, ecc.
La loro attribuzione presuppone che vi siano delle richieste che provengono dall'esterno: ed è evidente che per da intreccio di interessi, non sempre limpidi, si creano tra magistrati, partiti politici ed altri centri di potere - anche economico - rapporti e legami che possono da un momento all'altro divenire fonte di inevitabili sospetti: con conseguenze spiacevoli, se non altro, per quanto riguarda la credibilità del magistrato coinvolto.
Da tali intrichi non possono non uscire attenuate le garanzie di indipendenza che il magistrato deve essere sempre in condizione di offrire alla società.

Questo, come gli altri tre per i quali ti invitiamo a firmare, sono dunque referendum "per" la magistratura e non "contro" di essa, le sue vere, fondamentali funzioni.
Nonostante certe situazioni (che fanno molto parlare di sé e riscuotono un plauso anche troppo facile) la magistratura italiana gode oggi di una reputazione poco solida.
Ogni giorno il cittadino deve sperimentare le difficoltà di ottenere in tempi rapidi e certi giustizia.
E, tra tante disfunzioni strutturali, fanno capolino anche quelle addebitabili a comportamenti, o a metodi di lavoro inadeguati, degli stessi magistrati. Si ha l'impressione (e non è una impressione vana) che la magistratura, come corpo, tenda a separarsi dalla società per garantirsi uno spazio tutto suo nel quale non valgano norme che per gli altri sono legge.
I magistrati si sono sottratti alla responsabilità civile per errori gravi e dolo; possono avere, come un impiegato statale qualunque, un "doppio lavoro" lautamente pagato e di incerta definizione etica; possono far carriera senza che nessuno controlli la qualità del loro impegno professionale; sono protetti da critiche e da assunzioni di responsabilità da un organo come il CSM, che ha immensi poteri ed offre scarsa visibilità e garanzie di indipendenza, ecc.
Tutto questo fardello di questioni attende una risposta che non può non essere affidata ai cittadini, finalmente chiamati a dire la loro, in termini non "tecnici" ma politici, di costume ed etici.
E' il compito che svolgono, appunto, questi quattro referendum.



18 CARRIERA DEI MAGISTRATI


La questione sollevata da questo referendum è davvero molto semplice, ma cruciale.
Oggi si entra in magistratura, in giovane età, vincendo un concorso; ebbene, questo concorso rimarrà, per tutta la carriera del magistrato, la prima, sola ed ultima valutazione sulle sue capacità e sulle sue attitudini.
Dopo aver superato l'unico ostacolo del concorso iniziale, il magistrato ascenderà ai massimi gradi della carriera e al più alto trattamento economico semplicemente grazie al trascorrere degli anni, in modo pressoché automatico ed inesorabile, senza dover rendere conto a nessuno né dell'efficienza del proprio operato, né delle proprie capacità e volontà di aggiornamento. Una volta vinto il concorso, i libri possono essere accuratamente richiusi; eventuali ulteriori sforzi sono affidati solo ed esclusivamente al senso di responsabilità e alla consapevolezza del singolo: il quale però sa bene che la sua progressione in carriera non dipenderà dall'impegno, dalla professionalità o dalla preparazione, quanto solo ed esclusivamente dal passare del tempo.

Questo privilegio intollerabile è il risultato di una graduale erosione dei vecchi meccanismi della carriera dei magistrati; un processo costante, svoltosi durante gli anni `60 e `70.
La Costituzione aveva affidato al Consiglio Superiore della Magistratura il compito di decidere sul reclutamento, le promozioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari: su tutto quanto insomma riguardasse direttamente lo status del magistrato.
Questo, ovviamente, non escludeva la responsabilità del legislatore nel fissare i criteri generali sulla base dei quali il CSM potesse poi prendere le decisioni affidate alla sua competenza. Il legislatore però cominciò, dall'inizio degli anni '60, un'opera di smantellamento dei precedenti sistemi di valutazione degli avanzamenti di carriera dei magistrati, ritenuti troppo discrezionali e, soprattutto, sospettati di favorire le ingerenze del Ministero di Grazia e Giustizia.

Nel 1963 si cominciò con lo stabilire il sistema dei "ruoli aperti": i candidati ritenuti idonei ad un grado superiore potevano esser promossi anche se in realtà posti vacanti in quel ruolo non ve ne fossero affatto; avrebbero continuato a svolgere le funzioni inferiori, ma godendo del trattamento economico e di tutti gli altri vantaggi del grado per il quale venissero ritenuti idonei.
In seguito, altri provvedimenti spianarono la strada alla completa eliminazione di ogni valutazione nei passaggi da un grado all'altro.
Il legislatore continuava a proclamare la necessità che a scandire la carriera del magistrato intervenissero valutazioni a intervalli determinati, ma quello che il legislatore continuava a proclamare, veniva svuotato di contenuto dall'applicazione che il Consiglio Superiore della Magistratura andava facendo delle leggi.
Così, l'unico criterio di giudizio finisce per diventare quello - automatico ed indiscutibile - della anzianità di servizio.

Ma può essere chiamato un "criterio"?

La corporazione dei magistrati ha in questo modo trasformato in scatti automatici quelli che la legge continua a indicare come avanzamenti "di merito": con il risultato di cui dicevamo all'inizio.
Oggi un giovane magistrato, dopo aver vinto il concorso, può essere ragionevolmente sicuro che - a meno che non commetta qualche reato grave - nel giro di 28 anni di servizio può arrivare a un trattamento economico di circa 200 milioni annui senza che, nel corso di quei 28 anni, nessuno gli chieda conto di alcunché.
Il tutto secondo quanto stabilito da quel Consiglio Superiore della Magistratura che si rivela clamorosamente, in questa vicenda, nella sua autentica essenza non di organo di autogoverno della magistratura e garante della sua indipendenza, ma piuttosto di tutore feroce degli interessi particolari della corporazione, contro ogni interesse generale.
Attraverso questo referendum, abbiamo dunque la possibilità di riaprire, superando l'inerzia parlamentare, la questione "carriere": noi proponiamo infatti - intervenendo sulle leggi 4 gennaio 1963 n.1 e 20 dicembre 1973 n.831 - di abrogare tali deplorevoli automatismi: si tratta di togliere di mezzo quelle valutazioni "di merito" che si sono di fatto trasformate in avanzamenti burocratici, facendo sopravvivere esclusivamente i meccanismi d'avanzamento basati sui concorsi.

Sarebbe un passo decisivo per il superamento della più emblematica magagna del nostro ordinamento giudiziario: un passo per la riconquista di una organizzazione della magistratura tale da garantire a ogni cittadino la preparazione professionale, la diligenza e la perizia di colui che è chiamato a giudicarlo; e per dare agli stessi magistrati il metro e la certezza di un giusto rapporto fra prestazioni offerte e gratificazioni ricevute.

Affinché cominci ad affermarsi una concezione dell'ordinamento giudiziario ispirata non alla burocratizzazione corporativa, ma al senso di responsabilità di ciascun magistrato.


19 ORDINE DEI GIORNALISTI


Luigi Einaudi diceva che ogni cittadino deve poter avere la possibilità di esprimere le sue idee con tutti i mezzi possibili: in primo luogo la carta stampata, i giornali.

Einaudi aveva in mente il grande giornalismo da sempre sinonimo di libertà, di indipendenza civile contro il potere e i conformismi di ogni tipo.
Un giornalismo di questo tipo c'è stato anche in Italia: su "Il Mondo" di Mario Pannunzio tutti potevano scrivere, purché avessero qualcosa di buono da dire.
Oggi, quel giornalismo sembra scomparso.
Fatte salve le eccezioni, conformismo, soggezione ai poteri, spirito conservatore, cinismo inquinano la carta stampata, ma anche l'informazione radiotelevisiva, pubblica e privata.
I guardiani di questo inquinamento sono, in primo luogo, gli stessi giornalisti. Perché?
Perché il potere è riuscito a legarli al suo carro garantendo loro, in cambio, privilegi di ogni genere.

Tali privilegi sono amministrati dall'Ordine dei Giornalisti. Alla loro spartizione non può accedere chi non è iscritto all'Ordine: e per iscriversi occorre passare gli esami dell'Ordine. Ad esempio, il lucrosissimo contratto collettivo di lavoro dei giornalisti non è applicabile ai non iscritti (è talmente oneroso che, se fosse applicabile a quanti esercitano effettivamente la professione, la maggior parte delle aziende editoriali non ce la farebbe a campare). Non c'è chi non veda come il sistema sia iniquo e pericoloso, inaccettabile.

I primi beneficiari dell'esistenza dell'Ordine professionale sono stati i suoi dirigenti. Costoro hanno spesso gestito in modo clientelare il potere di essere gli esaminatori e i giudici di altri colleghi.
Gli scandali che hanno riguardato gli esami truccati per diventare professionisti e quelli che hanno toccato, più recentemente, noti giornalisti ed esponenti dell'ordine, hanno portato a galla un malcostume che durava da anni e anni, che ha reso più difficile il cammino che un giornalista deve percorrere prima di giungere all'esame che lo qualifichi come professionista, e ne ha malamente distorto la formazione.
Per essere riconosciuti "praticanti", e così avere il titolo di ammissione all'esame, spesso ci si deve sottomettere ad una trattativa politica basata sulla lottizzazione partitocratica, sulle clientele e sull'appartenenza a clan e "famiglie".

Come è possibile che, in queste condizioni, il giovane possa avvicinarsi alla professione senza compromessi e cedimenti?

L'Italia è l'unico Paese dell'Unione europea, e fra i pochissimi al mondo, ad avere un Ordine dei giornalisti, ed una legislazione della materia dettagliatissima e dunque complicata.
Questa regolamentazione è conseguenza della volontà di controllare una professione, il giornalismo, che ha una forte rilevanza sociale. Non stupisce perciò che il giornalista e la stampa italiani, a differenza che in altri Stati dove la professione è libera, godono presso l'opinione pubblica di scarsa considerazione e sono circondati di diffidenza: la gente sente che essi non sono mai interamente credibili.

Secondo il parere di molti giuristi, del resto, l'iscrizione obbligatoria all'Ordine è contraria all'articolo 21 della Costituzione, che sancisce la libertà di pensiero e dunque è tale da superare perfino la contorta giustificazione data dalla Corte Costituzionale, che configurava l'Ordine come strumento posto a tutela "del contrapposto potere economico dei datori di lavoro".

Incompatibile appare, peraltro, l'esistenza dell'Ordine con la natura sostanzialmente subordinata del rapporto di lavoro giornalistico. Le forme associative del lavoro subordinato passano attraverso la garanzia specifica dell'art. 39 della Costituzione quando abbiano finalità sindacali; ovvero attraverso la garanzia generica dell'articolo 18.
Con la soppressione dell'Ordine dei giornalisti chiesta da questo referendum si restituisce piena dignità professionale a chi svolge effettivamente la professione di giornalista, anche nei confronti del suo naturale interlocutore, che è il cittadino, del quale egli deve guadagnarsi il rispetto e la considerazione.




20 PUBBLICITÀ RAI


La ridefinizione del ruolo della Televisione pubblica - la Rai - è un passo indispensabile, se si vuole giungere ad un assetto complessivo del sistema televisivo italiano che sia più efficiente, meno costoso, e sopratutto libero dai condizionamenti del potere politico. L'attuale abnorme struttura della Rai impedisce anche la riforma del settore privato.

Come è stato più volte osservato (e pensiamo all'on. Amato, il Presidente della "Autorità" Antitrust) non si può pretendere che gli operatori privati (cioè, oggi, la Fininvest) riducano il proprio peso sul mercato se si lascia di fronte a loro un colosso come la Rai, con le sue tre reti finanziate, oltre che attraverso il canone obbligatorio, anche con i proventi della pubblicità.

E a sua volta, per controbattere la concorrenza, la Rai è persino "obbligata" a mandare in onda programmi, in larga misura, di mero intrattenimento, che possano confrontarsi con la Fininvest sul terreno della audience. Ma, così facendo, la Rai trascura di adempiere al suo primario dovere (per il quale incamera il canone dovuto per legge da chiunque possegga un televisore) che è, come ha ricordato anche l'ex Ministro Tremonti, di produrre e diffondere quei programmi di cui la società, in una fase di rapidissima crescita culturale e tecnologica, ha estremo bisogno. La televisione è infatti l'unico mezzo di informazione e di formazione capace di penetrare in ogni strato sociale e di porre a disposizione di tutti un enorme potenziale di "saperi"; ma questo tipo di servizi non può essere accollato al privato.

Togliendo alla Rai, o limitando fortemente, la possibilità di trasmettere spot pubblicitari, il referendum consentirebbe di ricondurre l'ente di Stato alla sua funzione originaria (e, come abbiamo detto, necessarissima) di servizio pubblico. Una sua ristrutturazione lungo questa direttiva porterebbe al ridimensionamento, o addirittura all'esclusione, della parte commerciale dell'azienda, cioè della parte più onerosa in termini di costi e di mole.

La grossa fetta degli introiti pubblicitari che essa detiene verrebbe immessa sul mercato, con un evidente ulteriore arricchimento del mercato stesso grazie al quale potrebbero nascere e svilupparsi (come oggi non è invece possibile) altre iniziative, sia nazionali che locali, capaci di rompere l'attuale duopolio, a tutto beneficio dell'utente.
Nel corso delle audizioni nella Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, lo stesso Consiglio di Amministrazione dell'ente televisivo di Stato ha più volte messo in evidenza che, costretta come è alla concorrenza con l'emittenza commerciale con la continua necessità della ricerca dell'audience, la Rai non ha la possibilità e l'interesse a dedicarsi a programmi di carattere educativo, formativo, culturale o di altro livello.

Coloro che si oppongono al nostro referendum obiettano che, in questo modo, la Rai consegnerebbe ai privati le grandi masse della audience.
Ma non tengono conto di una obiezione fondamentale, che pure è stata rivolta a questa tesi: e cioé che, volendo restare legata all'inseguimento di una audience strappata con la trasmissione di programmi commerciali e di mero intrattenimento, la Rai dovrebbe rinunciare al canone: non vi è alcuna ragione per la quale il cittadino debba finanziare di tasca sua i varietà televisivi.

Una Rai restituita al suo ruolo di servizio pubblico raccoglierebbe peraltro la audience di coloro che puntano innanzitutto sulla qualità dell'informazione e dei grandi programmi "formativi" (che non necessariamente devono essere noiosi): e cioè la audience dei settori-guida e degli strati qualificati della società: la Rai sarebbe dunque una "opinion-maker" di enorme influenza e peso, capace a sua volta di stimolare una diversa concorrenza anche del settore commerciale, sollecitato a fornire, in questi settori, servizi comunque migliori, decorosi e "credibili".
Questo è l'obiettivo fondamentale cui punta il nostro referendum, in un momento in cui - anche a seguito del voto popolare dell'11 giugno - il paese è chiamato a dare un indirizzo nuovo al sistema dei mass-media.
Contro il referendum si muovono sopratutto quelle forze politiche che non vogliono rinunciare alla comoda gestione, più o meno diretta, dell'informazione di Stato, quella che ci è stata propinata dalla Rai, in quaranta anni di monopolio democristiano prima, e poi con la spartizione partitocratica, con l'esclusione di tutte le forze e voci diverse, emergenti, portatrici di novità.