Lista Emma Bonino
20 Referendum 1999




1 CARCERAZIONE PREVENTIVA


Per ridurre i tempi di carcerazione in attesa di giudizio.
L'obiettivo di questo referendum è quello di ridurre drasticamente i tempi di custodia cautelare in carcere in attesa del processo.
L'articolo 13 comma 5 della Costituzione riserva alla legge il compito di stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva; l'articolo 27 comma 2 della stessa Costituzione considera l'imputato "non colpevole" fino alla condanna definitiva; per giunta, lo stesso principio della presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva -insieme al diritto ad un giusto e rapido processo- è ribadito da una serie di altre norme internazionali pattizie (articolo 6 della Convenzione Europea e articolo 14 numero 2 del Patto Internazionale) vincolanti per l'Italia.
Ne deriva che "la legge" a cui il citato articolo 13 comma 5 della Costituzione fa rinvio, nello stabilire i limiti massimi di custodia cautelare preventiva (prima cioè di qualsiasi condanna definitiva e ad accertamento giudiziario in corso), dovrebbe essere improntata ai principi appena richiamati, che impongono -innanzitutto al legislatore ordinario- delle precise regole di condotta, e cioè, per l'appunto, delle scelte legislative conformi da un lato alla presunzione d'innocenza e dall'altro al diritto ad un giusto e rapido processo. A fronte di questa situazione, il Codice di procedura penale prevede invece la possibilità di dilatare i termini di custodia cautelare, per i reati più gravi, ma pur sempre in una situazione di presunta innocenza di un individuo, fino a nove anni, cioè fino a 108 mesi, fino a 3285 giorni...in attesa di una sentenza definitiva! Si tratta di una scelta assolutamente indegna per un qualsiasi paese che voglia dirsi civile: fino a nove anni di carcere, senza che vi sia stato un accertamento di colpevolezza con sentenza irrevocabile, e dunque con tutte le garanzie di forma e di sostanza del processo penale, che per sua stessa natura (oltre che per imposizione di norme sovraordinate) dovrebbe essere innanzitutto rapido.
E non a caso la grande maggioranza della popolazione carceraria in Italia è in attesa di giudizio: un popolo di presunti innocenti, in custodia cautelare, "praticamente" a tempo indefinito.
Il quesito referendario mira a porre rimedio a questa situazione imponendo dei termini massimi di un anno per i reati più gravi, dilatabili, in virtù di sospensioni di diversa natura, fino a due anni.
Semplicemente un atto di civiltà giuridica.


2 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA


Per eleggere i rappresentanti della magistratura in base al loro prestigio e non ai loro "partiti" di riferimento.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella abolizione del voto di lista per la elezione dei membri togati del CSM, e nella trasformazione della "preferenza unica" da puro e semplice meccanismo di selezione operante nell'ambito della lista a vera e propria norma generale per la scelta dei candidati.
In pratica, pur non essendo possibile, a causa della giurisprudenza della Corte Costituzionale, l'introduzione di un sistema elettorale uninominale maggioritario, in questo modo si ottiene comunque il risultato di "sganciare" l'elezione del candidato dall'appartenenza ad una corrente ed alla relativa lista, e di "legarla", invece, alle preferenze raccolte immediatamente e direttamente sul suo nome, in base al suo prestigio e alle sue capacità personali: in sostanza, si tratta di un primo e decisivo passo per sottrarre i rappresentanti dei magistrati alla lottizzazione correntocratica e per difendere la loro effettiva indipendenza e libertà di giudizio.
Da questo punto di vista, occorre ricordare che, secondo la Costituzione, il CSM è l'organo che deve garantire l'indipendenza della magistratura dai condizionamenti politici e partitici per tutto ciò che attiene alla sua organizzazione interna (carriere, trasferimenti, provvedimenti disciplinari, ecc.). I due terzi dei suoi membri vengono eletti direttamente dai magistrati (membri togati), mentre il restante terzo viene eletto direttamente dal Parlamento (membri laici).
A partire dagli anni '60, però, in seno all'Associazione dei magistrati, nacquero correnti di diversa impostazione ideologica, che cominciarono a dotarsi di propri organi dirigenti, di uffici stampa, proprio come dei veri "partiti dei magistrati". Da quando, poi, nel 1975, il sistema elettorale dei membri togati del CSM (inizialmente uninominale maggioritario) fu trasformato in proporzionale, questi non sono più stati eletti perché stimati e rispettati dai colleghi per il loro prestigio, la loro professionalità e la loro preparazione, ma esclusivamente in quanto rappresentanti di questa o quella corrente, di questo o quel "partito dei magistrati": Magistratura Democratica, Unità per la Costituzione, Magistratura Indipendente, e così via. Ed il CSM, in pratica, è divenuto un vero e proprio parlamentino dei magistrati, con i diversi gruppi a confrontarsi, i capigruppo, le loro riunioni in separata sede: un organismo fortemente politicizzato, rispondente ad una ferrea logica corporativa, che si contrappone al Parlamento disputandogli la legittimità delle decisioni in materia di politica criminale, e straripando, con la politicizzazione del proprio ruolo, ben al di là del dettato costituzionale.
Il risultato di questo referendum sarebbe quello di sottrarre i magistrati alla lottizzazione delle correnti, di consentire che vengano eletti come membri del CSM i migliori e i più preparati e non piuttosto quelli rappresentativi di questo o quel partitino e, in ultima analisi, di rompere il nesso perverso e incostituzionale fra politica e magistratura restituendo ad entrambe la necessaria autonomia.

3 INCARICHI EXTRAGIUDIZIARI



Per impedire ai magistrati di assumere altri incarichi incompatibili con un esercizio efficiente ed imparziale delle loro funzioni.
L'obiettivo di questo referendum è quello di impedire ai magistrati l'assunzione di altri incarichi incompatibili con un esercizio efficiente ed imparziale delle loro ordinarie funzioni giudiziarie.
Nei paesi a tradizione democratica e liberale non è nemmeno pensabile che ad un giudice sia consentito di assumere incarichi ed attività diversi da quelli propri della sua delicata funzione. In Italia, invece, sono numerosissimi gli incarichi non giudiziari che i magistrati possono svolgere: arbitrati molto lucrativi, incarichi professionali all'interno di ministeri ed enti pubblici, collaudi (come quelli -denunciati da Marco Pannella ed in seguito accertati da indagini della magistratura nello scandalo dilagato a Napoli durante la ricostruzione post-terremoto- nei quali furono coinvolti alcuni dei magistrati della procura napoletana che avevano accusato Enzo Tortora).
E' evidente che l'attribuzione di questi veri e propri privilegi non è frutto della casualità ma di richieste specifiche provenienti da ambienti esterni alla magistratura: intrecci di interessi, non sempre limpidi, si creano fra magistrati, partiti politici ed altri centri di potere; rapporti e legami che possono da un momento all'altro divenire fonte di inevitabili sospetti e causa di perdita di credibilità per i magistrati coinvolti. Da questi intrighi non possono non uscire compromesse le garanzie di autonomia che il magistrato deve sempre essere in condizione di offrire alla società.
Questo referendum, quindi, come gli altri sulla giustizia, non è un referendum "contro" la magistratura, ma "per" la magistratura e le sue vere, fondamentali funzioni.
La magistratura italiana, oggi, gode di una reputazione poco solida, e fra le disfunzioni strutturali del "sistema-giustizia" rientrano anche quelle addebitabili a comportamenti e metodi di lavoro inadeguati degli stessi magistrati. Essi tendono troppo spesso a separarsi dalla società civile, così come accade ai politici, in una sfera sempre più corporativa e di privilegio, sottratta al giudizio ed al controllo della gente: l'irresponsabilità civile nei casi di dolo o colpa grave, la carriera automatica per anzianità, gli altissimi emolumenti addirittura superiori a quelli dei parlamentari, il doppio lavoro profumatamente pagato, sono tutti elementi di preoccupazione di cui non si può non tener conto, soprattutto in difesa della dignità della grande maggioranza di magistrati onesti e scrupolosi, che svolgono il proprio lavoro -e solo quello- nella più ampia libertà e autonomia di giudizio e con indubbia professionalità


4 RESPONSABILITA' CIVILE DEL MAGISTRATO



Per consentire al cittadino di ottenere il risarcimento dei danni eventualmente subiti per dolo o colpa grave del magistrato.
L'obiettivo di questo referendum è quello di consentire al cittadino di ottenere dal magistrato il risarcimento dei danni che questi gli abbia eventualmente causato attraverso un comportamento doloso o gravemente colposo.
Da questo punto di vista, occorre ricordare che già nel 1987 si tenne un referendum (il cosiddetto "referendum Tortora") che mirava a far sì che il giudice che avesse arrecato -con dolo o colpa grave- un danno al cittadino fosse tenuto a risponderne sul piano civile: si trattava, in sostanza, di abrogare gli articoli 55, 56 e 74 del Codice di procedura civile, che impedivano al magistrato di rispondere in sede civile dei suoi errori, come invece succede per qualunque altro funzionario dello Stato. Oltre l'80% dei cittadini votò sì, indicando chiaramente la volontà di chiamare a rispondere, ad esempio, i giudici che emanavano mandati di cattura clamorosamente sbagliati a causa di omonimie non controllate, o che ordinavano una carcerazione preventiva con leggerezza, o che, in base a vaghi sospetti, mettevano a repentaglio i più elementari diritti dei cittadini.
Subito dopo, però, il Parlamento (guidato dal terzetto DC-PCI-PSI) rapinò il risultato del referendum votando la cosiddetta "legge Vassalli" e travolgendo il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato. La "legge Vassalli", infatti, prevede che il cittadino che abbia subito un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli direttamente causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo -si badi- entro il limite di un terzo di annualità di stipendio. La legge Vassalli ha così raggiunto il suo scopo: ridurre al minimo le domande di risarcimento e ristabilire un regime di irresponsabilità per i magistrati.
Attraverso il nuovo referendum, invece, si avrà la possibilità di chiamare in causa direttamente il magistrato che abbia errato dolosamente o per colpa grave, restituendo ai tanti magistrati seri e preparati la dignità di essere responsabili dei propri atti.

5 SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI


Per assicurare una maggiore neutralità di giudizio impedendo ai magistrati con funzioni requirenti di passare a funzioni giudicanti e viceversa.
L'obiettivo di questo referendum è quello di affermare il principio della cosiddetta "separazione delle carriere", impedendo ai magistrati con funzioni requirenti di passare a funzioni giudicanti e viceversa, e assicurando così una maggiore neutralità del giudizio.
Nell'attuale sistema disegnato dalle norme dell'ordinamento giudiziario, i magistrati, a semplice domanda e previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, possono indistintamente passare nel corso della loro carriera dall'esercizio di funzioni giudicanti (giudici) all'esercizio di funzioni requirenti (magistrati -che giudici non sono- che svolgono le funzioni di pubblico ministero) e viceversa.
Questo stato di cose ha portato e porta quotidianamente a gravissime "storture" nel funzionamento generale dell'amministrazione della giustizia.
Innanzitutto, il passaggio di funzioni si è dimostrato deleterio poiché tra giudicanti e requirenti vi dovrebbe essere una "forma mentis" assolutamente differente: garante, imparziale, terzo tra le parti il giudice; parte stessa del processo penale il pubblico ministero, che rappresenta l'accusa contro la difesa. Da questo punto di vista, è assolutamente impensabile che, da un giorno all'altro, chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere, pur essendo indagato o imputato da un ex collega di funzioni.
In secondo luogo, è proprio lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono, comunque, la stessa vicenda professionale (e da cui possono dipendere incarichi e trasferimenti in uffici più o meno prestigiosi) che ha portato e porta quotidianamente, tra le altre cose, la difesa, l'indagato, l'imputato ad essere sempre meno in posizione di parità rispetto ad un'accusa a cui il giudice da del "tu".
Per questo, il quesito referendario mira proprio ad eliminare in radice la possibilità di passare indistintamente da una funzione all'altra, eliminando le citate "pericolose" interdipendenze, e senza, per altro verso, scalfire il principio dell'indipendenza dall'esecutivo di tutti i magistrati (giudicanti e requirenti).


6 TERMINI ORDINATORI E PERENTORI


Per rendere certi e perentori i tempi della giustizia sia per i cittadini che per l'amministrazione della giustizia.
L'obiettivo di questo referendum è quello di rendere certi e perentori i tempi della giustizia sia per i cittadini che per l'amministrazione pubblica.
Nell'ordinamento italiano vige un principio generale in virtù del quale i termini processuali, e più in generale i termini per compiere un determinato atto giuridico, sono sempre "ordinatori", salvo che la legge non li indichi espressamente come "perentori".
Avere a che fare con un termine perentorio significa avere a che fare con un termine, scaduto il quale, non sarà più possibile compiere l'atto giuridico che in precedenza, e cioè prima della scadenza del termine stesso, si era in diritto o in facoltà di compiere. Avere a che fare con un termine perentorio significa quindi anche avere a che fare con tempi certi. In altre parole, la perentorietà del termine impone di attivarsi tempestivamente per il compimento di un atto, eliminando la situazione di incertezza a seguito dello spirare del termine stesso, ed imponendo pertanto delle cadenze procedimentali non solo certe (perché predeterminate o quantomeno predeterminabili), ma sicuramente più rapide.
Il medesimo principio generale è espressamente riproposto sia nel Codice di Procedura Civile sia nel Codice di Procedura Penale, con un particolare: allorquando gli atti giuridici (ricorsi, costituzioni, istanze, impugnazioni, …) debbono essere compiuti dalle parti private di un processo (cioè dagli utenti del "servizio-giustizia", dai cittadini contribuenti) la legge si premura espressamente di indicare, ogni volta, che si tratta di termini perentori alla scadenza dei quali la parte decade dall'esercizio del diritto o della facoltà ad essa riconosciuta; al contrario, allorquando si tratta di regolamentare le attività di giudici, cancellerie, segreterie (per la emissione dei provvedimenti istruttori o decisori, o per la comunicazione degli stessi), la stessa legge tace, facendo rivivere, o meglio vivere, il principio generale. In altre parole, in virtù del sistema esistente, mentre i cittadini debbono correre per non perdere i loro diritti, la burocrazia della giustizia può tranquillamente poltrire cullandosi nel mare dei termini "ordinatori", che dovrebbero cioè "ordinare", dare ordine e tempi ai procedimenti, ma che, essendo sforniti di qualsiasi sanzione, non ordinano alcunché, tanto da poter essere definiti, anziché ordinatori, termini "canzonatori", che servono cioè soltanto a "canzonare" quei cittadini che -il più delle volte in condizioni di disperazione- si rivolgono al "servizio-giustizia".
Il quesito referendario mira ad eliminare questa discriminazione, rendendo perentori per tutti (parti private e burocrati della giustizia) i termini entro i quali compiere ciascuno le attività di propria spettanza. I processi, civili e penali, sarebbero così sottoposti a tempi certi e sicuramente più brevi, con maggiori garanzie di una giustizia giusta -perché tempestiva e certa-, ed una maggiore responsabilizzazione di chi il "servizio-giustizia" dovrebbe fornire.
 

7 CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO


Per liberalizzare i contratti di lavoro a termine.
Il quesito chiede l'abolizione dei vincoli che oggi rendono di fatto impraticabile la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato.
In questo modo, la legge limita le possibilità di trovare un'occupazione temporanea o di durata incerta. Il contratto a tempo determinato, infatti, che instaura un rapporto di lavoro destinato ad esaurirsi al termine di un periodo di tempo prefissato, è ammesso dalla legge solo come eccezione rispetto a quello a tempo indeterminato, qualora ricorrano particolari condizioni. Negli ultimi anni, per la verità, il sostanziale divieto è stato sempre più spesso aggirato attraverso il ricorso ai contratti di formazione, all'apprendistato o a deroghe previste in alcune situazioni particolari. In questi casi, però, le condizioni di "eccezionalità" e la durata dei contratti a termine devono essere preventivamente accertati ed autorizzati dall'Ispettorato del lavoro, sentiti i sindacati.
Il successo del referendum restituirebbe invece agli imprenditori e ai lavoratori la libertà di concordare la durata del contratto di lavoro a seconda delle loro necessità: in questo modo, molti giovani potrebbero essere assunti con regolari contratti, seppur di durata limitata, anziché essere costretti a lavori precari senza garanzie oppure a lavorare in nero. Esempi come quello della Spagna dimostrano che i contratti di lavoro a tempo determinato sono uno strumento importante di flessibilità del mercato del lavoro, che aiuta le aziende e favorisce l'occupazione. L'allarme che qualcuno lancia sul rischio che in questo modo vi sarebbero solo assunzioni a tempo determinato è del tutto ingiustificato: salvo i casi in cui è strettamente necessario, per le aziende è sempre più conveniente -anche sotto il profilo economico- ricercare un rapporto di lavoro stabile.


8 LAVORO A DOMICILIO


Per liberalizzare i contratti di lavoro a domicilio.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella completa liberalizzazione dei contratti di lavoro a domicilio.
Considerando l'evoluzione delle tecnologie e dell'organizzazione produttiva, infatti, e in particolare gli enormi progressi nell'utilizzo dei sistemi informatici e delle reti telematiche, la legislazione vincolistica sul lavoro a domicilio appare oggi non solo superata, ma addirittura deleteria per una più flessibile ed efficiente organizzazione del lavoro e per una migliore qualità della vita di tanti lavoratori.
In concreto, il referendum chiede di abolire gli attuali vincoli che rendono di fatto impraticabile il lavoro subordinato svolto in luoghi diversi dalla "fabbrica" o dall'"ufficio", e in primo luogo nella propria abitazione privata. L'unico vincolo che il referendum non abolisce è il divieto di svolgere a domicilio attività che comportino l'impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l'incolumità del lavoratore e dei suoi familiari.

9 LICENZIAMENTI INDIVIDUALI


Per abrogare, fermo restando il risarcimento patrimoniale, l'obbligo di riassunzione del lavoratore licenziato, vincolo disincentivante alla creazione di nuovi posti di lavoro nelle piccole imprese.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella rimozione della materiale impossibilità di licenziare, attualmente prevista, per le imprese con più di 15 dipendenti, dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
In caso di licenziamento, infatti, spetta al giudice del lavoro stabilire, una volta che il provvedimento venga impugnato, se ricorrano o meno la giusta causa o il giustificato motivo. A quel punto, il giudice può decretare la reintegrazione, annullando il provvedimento di licenziamento e tutte le sue conseguenze. In pratica, questa norma, non avendo tenuto conto del fatto che,
quali che siano le motivazioni, con il licenziamento diviene chiara la rottura di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore -con il conseguente venir meno di un fattore determinante per la vita delle imprese di minori dimensioni-, ha finito per instaurare un regime che si è rivelato per le piccole imprese (tali sono anche le imprese con 16 o più lavoratori) un vero e proprio disincentivo alla assunzione in generale ed al superamento dei 15 dipendenti in particolare.
Il successo del referendum, invece, determinerebbe per tutte le imprese il regime vigente per quelle che non superano i 15 dipendenti. Anche per tali aziende, in caso di impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore, è il giudice a stabilire se sussistano o meno le condizioni di giusta causa o giustificato motivo, ma la "sanzione" prevista per il datore di lavoro consiste o nella riassunzione (comunque meno onerosa del reintegro) o, in alternativa, nella corresponsione di una indennità monetaria pari a 2,5-6 volte la retribuzione mensile.
E' chiaro che il referendum intende aprire uno scontro su di una norma che irrigidisce oltre ogni misura il mercato del lavoro italiano. E' altrettanto chiaro che, successivamente, il legislatore dovrebbe intervenire per aumentare in modo consistente l'indennità di licenziamento, secondo un criterio proporzionale rispetto al numero dei dipendenti. Per le poche grandi imprese con centinaia o migliaia di dipendenti, infine, potrebbe ancora essere concepibile una normativa più simile a quella attuale.

10 PART - TIME


Per liberalizzare i contratti di lavoro a tempo parziale.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella completa liberalizzazione dei contratti di lavoro a tempo parziale.
Tra i motivi della elevata disoccupazione italiana, infatti, vi è proprio il ridottissimo ricorso ai contratti di lavoro part time, cioè quelli per cui è previsto un orario settimanale inferiore a quello dei contratti collettivi di lavoro (part time orizzontale) o un numero di giorni limitato nel corso della settimana, del mese o dell'anno (part time verticale). In Italia, i contratti a tempo parziale rappresentano solo il 6,4% del totale, contro il 15,6% della Francia, il 16,3% della Germania, il 18% degli USA, il 24% della Germania ed il 35,6% dell'Olanda.
E' chiaro che un elevato numero di contratti part time favorirebbe l'allargamento della base occupazionale, facendo diminuire in modo rilevantissimo il numero dei disoccupati: milioni di persone, infatti, opterebbero per un lavoro part time (lasciando così "spazio" per altri lavoratori anch'essi part time) se solo la normativa non prevedesse vincoli eccessivi e disincentivanti. Con il successo del referendum, quindi, verrebbero aboliti alcuni dei principali ostacoli alla diffusione del lavoro part time in Italia, fino ad oggi osteggiato anche e soprattutto da parte del sindacato.

11 PENSIONI DI ANZIANITA'


Per abolire da subito le pensioni di anzianità, elevando a 57 anni di età o 40 anni di contributi i requisiti minimi per la pensione, avvicinando l'Italia agli altri paesi europei.
Il quesito chiede l'immediata abolizione delle "pensioni di anzianità".
Occorre chiarire subito che questo referendum non riguarda coloro che oggi già sono in pensione. Le "pensioni di anzianità", infatti, non hanno nulla a che vedere con le pensioni degli anziani, di coloro che cioè percepiscono una pensione perché si trovano in un'età così avanzata da non poter più lavorare: in quest'ultimo caso si parla infatti di "pensioni di vecchiaia".
Il referendum si propone invece di rispondere alle richieste unanimemente avanzate da tutti gli analisti italiani e dagli istituti europei e mondiali di controllo della spesa pubblica: elevare più rapidamente di quanto non preveda la legge attuale i requisiti minimi per le future pensioni, al fine di evitare il collasso finanziario della previdenza pubblica, di cui farebbero le spese innanzitutto i più deboli.
Oggi, infatti, si può andare in pensione avendo 53 anni ed almeno 35 anni di contributi versati, ovvero con 37 anni di contributi indipendentemente dall'età: un "lusso" che solo gli italiani si concedono. Questi limiti tendono ad aumentare fino all'anno 2008, quando sarà possibile andare in pensione a 57 anni e 35 di contributi, ovvero con 40 anni di contributi: una riforma troppo lenta che, così com'è, non servirà a nulla.
Occorre peraltro ricordare che il tempo di vita medio degli italiani nel 1961 era di 67 anni per gli uomini e 72 per le donne, mentre oggi è passato a 75 anni per gli uomini e a 81 per le donne. A fronte di questi dati, il numero delle pensioni di anzianità è invece cresciuto in modo esponenziale, passando dal 1970 al 1998 da 143.000 a 2 milioni, mentre quelle di vecchiaia sono aumentate da 3,4 milioni a 5,4 milioni.
In concreto, dopo la vittoria del referendum, gli unici ad avere qualcosa da "perdere" saranno quei lavoratori che con l'attuale "riforma" Dini potrebbero per alcuni anni ancora andare oggi in pensione a soli 53 o 54 anni e 35 anni di contributi. Ma, a ben vedere, cosa "perderebbero" davvero tutti costoro col referendum? Non certo il diritto alla pensione. Dovrebbero soltanto fare il "sacrificio" di attendere tre o quattro in più per mettersi in pensione. Non si tratta di grandi sacrifici, rispetto al gravissimo danno che si produrrebbe nei confronti delle prossime generazioni non affrontandoli: si tratterebbe invece di un primo segnale di responsabilità e di "equità" nei confronti di quei giovani lavoratori che oggi pagano contributi elevatissimi in previsione -se tutto andrà per il "meglio"- di pensioni pari alla metà di quelle attuali.
Col referendum, quindi, fin da subito occorreranno 57 anni ed almeno 35 anni di contributi, ovvero almeno 40 anni di contributi indipendentemente dall'età: la corsa al pensionamento anticipato sarà frenata, miglioreranno i conti dello Stato, potranno diminuire i contributi e quindi il costo del lavoro, in modo da creare nuova occupazione e quindi nuovi potenziali contribuenti che renderanno meno improbabile il pagamento delle pensioni ai giovani lavoratori attuali e ai loro figli.

12 UFFICI DI COLLOCAMENTO


Per liberalizzare il collocamento privato, facilitando l'incontro fra la domanda e l'offerta di lavoro.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella completa liberalizzazione del collocamento privato, attraverso l'abolizione degli assurdi vincoli previsti dalla legislazione vigente.
Nel 1997, una legge imposta dalla Corte di Giustizia Europea ha rotto il cinquantennale monopolio pubblico del collocamento: ciò significa che oggi, almeno in teoria, dovrebbe essere possibile ai disoccupati in cerca di lavoro rivolgersi ad apposite agenzie private specializzate. Come spesso accade, però, questa legge ha posto tanti e tali vincoli alle società private da rendere quasi impossibile aprire e gestire una agenzia di collocamento del tipo, per fare un esempio, di quelle inglesi: in sostanza, si è voluto impedire un vero sviluppo del mercato e della concorrenza, per favorire ancora una volta il collocamento pubblico, burocratico, costoso e pressoché inutile.
Il referendum chiede proprio di abolire quei vincoli assurdi, consentendo l'apertura di centinaia di agenzie private efficienti ed in grado di favorire l'incontro tra chi cerca e chi offre lavoro.
Tra l'altro, uno degli elementi essenziali della richiesta referendaria consiste nella abolizione del vincolo di "esclusività" dell'attività di collocamento: che senso ha impedire alle agenzie di collocamento, ad esempio, di fare anche formazione professionale per andare incontro alle esigenze delle aziende?
Il successo del referendum, quindi, renderebbe finalmente possibile avere decine e decine di società private per il collocamento al lavoro in grado di rispondere con prontezza e senza lungaggini burocratiche alle esigenze delle aziende, dei disoccupati e di coloro che vogliono cambiare lavoro: esattamente quello che gli uffici di collocamento pubblici hanno dimostrato di non saper fare.



13 SOSTITUTO D'IMPOSTA


Per abolire la trattenuta alla fonte nella busta paga dei lavoratori dipendenti.
Il quesito chiede di abolire il meccanismo del sostituto d'imposta, consentendo a tutti i cittadini di ricevere interamente i propri guadagni e di versare solo successivamente le imposte, tutti con le stesse modalità.
Una vera democrazia esige che i cittadini, prima di ogni altra cosa, possano rendersi conto di quanto l'imposizione fiscale incida sulla loro busta paga e sui loro redditi. Oggi in Italia, per la grande massa dei lavoratori dipendenti, ciò è impedito. E' il datore di lavoro, infatti, che ogni mese trattiene alla fonte e provvede a versare allo Stato le tasse dovute dal lavoratore. Ciò che il lavoratore riceve in busta paga, quindi, non è lo stipendio cui ha diritto, ma solo ciò che dello stipendio gli rimane dopo aver pagato le tasse, salvo i conguagli definitivi su base annuale. Se egli si rendesse davvero conto di quanto lo Stato gli sottrae in termini di sole imposte dirette, pretenderebbe dallo Stato una buona utilizzazione di quel denaro, e chiederebbe conto a chi governa dei disservizi, degli sprechi e del pessimo funzionamento dei pubblici uffici.
E, badiamo bene, stiamo parlando solo della tassazione diretta, di quella cioè che ogni cittadino paga in proporzione al proprio reddito. Ma questa è solo una delle tante forme di tributi cui siamo soggetti tutti, lavoratori dipendenti ed autonomi. Vi sono anche le imposte indirette (invisibili perché comprese nel prezzo dei prodotti acquistati o diluite nel tempo), i contributi sociali obbligatori (anch'essi pagati dal datore di lavoro con la ritenuta alla fonte), e tutta una incalcolabile serie di balzelli cui siamo sottoposti "per forza" ed ai quali non possiamo sottrarci: chi è al corrente, ad esempio, che sulle circa 2000 lire al litro del costo della benzina, solo 300 lire rappresentano il vero costo del prodotto, mentre più di 1600 lire vengono incassate dallo Stato come imposta?
A causa dell'elevatissimo livello della pressione fiscale, insomma, oggi ogni cittadino versa allo Stato in varie forme quasi il 60% del proprio reddito, ricevendo in cambio molto meno di quanto ricevono i cittadini di altri Stati, dove si pagano meno tasse e, malgrado questo, la qualità dei servizi e delle prestazioni pubbliche è infinitamente migliore. Con questa pressione fiscale, è come se l'italiano lavorasse per pagare lo Stato fino alla fine del mese di luglio di ogni anno, e potesse trattenere per sé e la propria famiglia solo ciò che produce da agosto alla fine dell'anno. In Gran Bretagna, al contrario, il giorno di liberazione dalla corvée fiscale (il "tax-freedom day") cadrà quest'anno il 27 maggio, e negli Usa addirittura il 10 maggio!
Con la vittoria di questo referendum -negato fino ad oggi dalla Corte Costituzionale perché riguarderebbe leggi tributarie e di bilancio che la Costituzione vieta di assoggettare a referendum, ma che in realtà non incide affatto sull'ammontare dei tributi, ma solo sulle modalità tecniche di riscossione da parte dello Stato- i lavoratori dipendenti (sui quali grava la maggior parte del carico fiscale) riceverebbero dal datore di lavoro l'intera busta paga, e verserebbero essi stessi allo Stato le proprie tasse. Essi sarebbero così messi in grado di verificare tangibilmente l'esatto importo del proprio stipendio e delle tasse che gli tocca versare, per poter così più consapevolmente far valere i propri diritti di cittadini e contribuenti, e pretendere dallo Stato un corretto rendiconto del proprio operato ed una maggiore trasparenza nella gestione del denaro riscosso. Si tratterebbe, insomma, di una riforma di grande importanza sul piano economico, ma soprattutto su quello della libertà e della responsabilità nei rapporti tra cittadino e Stato.

14 PATRONATI


Per abolire il finanziamento pubblico dei patronati sindacali.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella abolizione del finanziamento pubblico dei patronati, che assicura ogni anno agli istituti legati alle maggiori confederazioni sindacali entrate superiori ai 300 miliardi di lire.
Da questo punto di vista, è forse opportuno sottolineare che Cigl, Cisl e Uil, tra finanziamento pubblico ai patronati, quote di iscrizione (tuttora incassate grazie alla trattenuta automatica in busta paga, abolita con il referendum del 1995 e reintrodotta dai contratti collettivi) e contributi del Ministero delle Finanze ai Caf (i mitici centri di assistenza fiscale che, per apporre il "visto di conformità" alle dichiarazioni dei redditi, ricevono dal Ministero un contributo di 20mila lire a dichiarazione), incamerano ogni anno circa 1.400 miliardi di lire. A questa cifra occorre poi aggiungere una serie di voci che, pur non essendo immediatamente e direttamente monetizzabili, rappresentano pur sempre un cospicuo contributo alle finanze dei sindacati: si pensi, solo per fare un paio di esempi, da un lato ai permessi e alle aspettative di cui usufruiscono i sindacalisti (con relativo versamento di contributi a carico dell'Inps!), e dall'altro agli immobili trasferiti ai sindacati dallo Stato nel 1977, nel quadro della definitiva liquidazione del patrimonio delle organizzazioni sindacali del periodo fascista.
Tutto questo contribuisce in modo decisivo a fare della "Trimurti Cgil-Cisl-Uil" (e cioè di tre associazioni di fatto non registrate e prive di personalità giuridica -i sindacati si sono sempre strenuamente opposti all'attuazione dell'art.39 della Costituzione- e che non sono nemmeno tenute a redigere un bilancio pubblico) un vero e proprio gigante economico in grado di "legittimare" o "delegittimare" governi e manovre finanziarie, di "bocciare" o "promuovere" qualunque progetto di riforma, di imporre "patti sociali" alla mera ratifica del Parlamento, e, in ultima analisi, di condizionare in modo assolutamente intollerabile la vita politica e sociale del paese.

15 Finanziamento pubblico dei partiti: rimborsi elettorali


Per abolire i rimborsi elettorali, annullando il tentativo partitocratico di aumentarli a dismisura trasformandoli in un vero e proprio finanziamento pubblico dei partiti.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella abolizione di ogni forma di rimborso elettorale.
In base alle norme attualmente vigenti, recentemente approvate dal Parlamento infatti, i partiti incassano 4000 per elettore in occasione di qualunque tipo di consultazione: inoltre, anche coloro che non vanno a votare concorrono a finanziare i partiti, poiche' il rimborso e' calcolato sugli aventi diritto al voto e non sui votanti effettivi
In altre parole, il compito del referendum è quello di annullare questo aumento a dismisura dei rimborsi elettorali, trasformandoli in una nuova -e più consistente- forma di finanziamento pubblico dei partiti.

16 TRATTENUTE ASSOCIATIVE E SINDACALI


Per abolire le trattenute alla fonte effettuate dall'INPS e dall'INAIL in favore delle associazioni sindacali e di categoria.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella abolizione del meccanismo per cui l'Inps, l'Inail e gli altri enti previdenziali provvedono, attraverso il consueto strumento della trattenuta, a riscuotere i contributi e le quote di iscrizione a favore delle più diverse associazioni sindacali e di categoria.
In sostanza, si tratta da un lato di porre fine ad una situazione per cui gli enti pubblici sono di fatto trasformati in "gabellieri", in "esattori" di cui il sindacato può disporre a proprio uso e consumo, e dall'altro di riaffermare il principio per cui l'iscrizione al sindacato deve scaturire da una manifestazione di volontà chiara e periodicamente rinnovata: troppo spesso, infatti, la "regola" è quella per cui il cittadino (ad esempio, il pensionando) si reca al patronato per essere assistito nell'espletamento di una pratica, e finisce -più o meno consapevolmente- per sottoscrivere una delega nella quale autorizza l'Inps a versare al sindacato una quota (in genere, l'1%) della propria pensione. Una delega, è bene sottolinearlo, che si intende tacitamente rinnovata a meno che non venga esplicitamente revocata: con queste premesse, non è davvero un caso il fatto che, già oggi, i pensionati rappresentino quasi la metà del totale degli iscritti al sindacato.


17 MONOPOLIO INAIL


Per abolire l'obbligo di stipulare l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro con l'INAIL, lasciando la possibilità di scegliere, in alternativa, un'assicurazione privata.
Il referendum chiede l'abolizione del monopolio pubblico sulla assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Attualmente, infatti, ciascun datore di lavoro subisce l'obbligo di assicurare i propri dipendenti presso l'INAIL, un ente che, come tutte le aziende dei monopoli pubblici, rappresenta un vero e proprio mastodonte burocratico, ed è per di più gestito secondo criteri partitocratici e sindacatocratici.
Le conseguenze di questo monopolio, tra l'altro, sono particolarmente pesanti per le imprese italiane, che si ritrovano a pagare premi (cioè tariffe) più che doppi rispetto ai concorrenti europei di paesi come il Belgio, la Germania o la Spagna.
La vittoria del referendum, pur lasciando immutato l'obbligo di assicurare i dipendenti contro gli infortuni, consentirebbe di aprire questo mercato alle compagnie private di assicurazione: anche l'assicurazione di responsabilità civile per le automobili, solo per fare un esempio, è obbligatoria, ma l'automobilista ha la libertà di scegliere con quale compagnia privata stipularla. In questo modo, insomma, si aprirebbe il settore al mercato e alla concorrenza -come sta già chiedendo da tempo l'Antitrust-, assicurando maggiore efficienza e tariffe più basse per gli imprenditori, ai quali sarebbe garantita da un lato l'opportunità di scegliere la compagnia preferita, e dall'altro -cosa oggi impossibile- quella di cambiarla nel caso in cui siano rimasti insoddisfatti del servizio ricevuto.

18 SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE


Per lasciare ai cittadini la libertà di scegliere un'assicurazione privata in alternativa al Servizio Sanitario Nazionale, fermo restando l'obbligo di assicurazione.
Il referendum punta ad introdurre la libertà per ogni cittadino di scegliere se iscriversi al Servizio Sanitario pubblico o piuttosto pagarsi un'assicurazione privata sulle malattie, fermo restando comunque l'obbligo per tutti di seguire l'una o l'altra delle due strade.
Nel caso in cui molti cittadini scegliessero questa seconda strada aperta dal referendum, non verrebbe meno il Servizio pubblico, ma solo il monopolio del finanziamento pubblico da esso attualmente detenuto. Il Servizio Sanitario Nazionale, quindi, resterebbe in piedi, e sarebbe finanziato dallo Stato in proporzione al numero di cittadini che liberamente decidessero di non rivolgersi ad una forma di assicurazione privata. Non solo: lo Stato potrebbe anche raccogliere i contributi sanitari dei cittadini in proporzione al reddito, e poi restituire a ciascuno un "buono" uguale per tutti e sufficiente a coprire il costo dell'assicurazione obbligatoria, ma spendibile presso una compagnia di assicurazione pubblica o privata liberamente scelta.
Lo scopo del referendum è quindi quello di creare condizioni di mercato e di concorrenza fra strutture pubbliche e private, nella consapevolezza che ciò darebbe un deciso impulso ad una ristrutturazione del fatiscente ed obsoleto apparato pubblico, ad una razionalizzazione della spesa sanitaria complessiva, e ad un miglioramento della qualità dei servizi offerti (un solo dato per tutti: in Italia oltre il 10% dei ricoverati nelle strutture pubbliche finisce per contrarre un'infezione ospedaliera).
Tra l'altro, data la formidabile dimensione del budget assorbito dalla sanità pubblica, non c'è da stupirsi del fatto che al suo interno, nelle aziende e negli ospedali, si sviluppino quotidianamente e dovunque vergognosi fenomeni di malcostume e di affarismo, intrecci e connivenze col settore privato, interessi economici e nicchie di potere, in totale dispregio degli interessi della collettività ad usufruire di servizi sanitari efficienti. Così stando le cose, quindi, non c'è neppure da sorprendersi del fatto che più del 50% dei cittadini aventi diritto all'assistenza pubblica preferiscano rivolgersi ai privati, e ritengano un vero e proprio furto il denaro che sono oggi obbligati a versare allo Stato per finanziare sfascio e sprechi di ogni genere.

19 SMILITARIZZAZIONE DELLA GUARDIA DI FINANZA


Per garantire una migliore qualificazione, efficienza ed autonomia della Guardia di Finanza.
L'obiettivo di questo referendum consiste nella abolizione di tutte le competenze di natura strettamente militare della Guardia di Finanza. In pratica, come avviene in tutto il resto del mondo (e come è già avvenuto anche in Italia per la Polizia di Stato, la Polizia municipale e la Polizia penitenziaria), il quesito mira a sottrarre alla Guardia di Finanza l'inefficiente ed anacronistico carattere di corpo militare, puntando su una sempre maggiore qualificazione professionale dei finanzieri, razionalizzando l'impiego delle risorse umane e di quelle finanziarie, e superando i rischi di autoritarismo e di corruzione fatalmente legati alla rigida struttura gerarchica militare.
In nessun paese al mondo, infatti, vi è la bizzarra anomalia di verificatori fiscali che, in tenuta da combattimento, si presentano nelle sedi delle aziende a controllarne i registri: dappertutto, invece, tale adempimento spetta a corpi civili di ispettori, magari non in grado di usare una baionetta o di lanciare una bomba a mano, ma con competenze contabili specifiche ed altamente professionalizzati.
Il modello militare vigente, inoltre, comporta numerosi altri "inconvenienti": la distribuzione sul territorio obbedisce a logiche di natura militare che poco o nulla hanno a che vedere con la dislocazione degli interessi economici; la preparazione specifica resta condizionata dall'ossessione militare (all'età di 45 anni i finanzieri si addestrano ancora al lancio delle bombe), e così anche la formazione del personale e gli arruolamenti (una lieve anomalia fisica può far preferire un giovanotto fisicamente a posto rispetto ad un altro diplomato o laureato). La gerarchia militare, per giunta, può compiere gli arbitri più sfacciati senza alcuna possibilità di discutere ragioni ed abusi. E infine, degli oltre 60.000 finanzieri in servizio, solo un terzo è impegnato nella lotta all'evasione fiscale: gli altri sono destinati a miriadi di mansioni assurde ed anacronistiche (sommozzatore, lamierista, odontotecnico, ecc.ecc.) che sono funzionali solo ed esclusivamente al mantenimento di un apparato burocratico-amministrativo che gestisce autonomamente migliaia di miliardi all'anno, senza alcun controllo e soprattutto senza alcun reale beneficio per la collettività.
E' infine opportuno ricordare che, nel 1997, la bocciatura di questo quesito da parte della Corte Costituzionale maturò in circostanze a dir poco sospette: il quotidiano "Il Tempo" denunciò infatti forti pressioni sulla Consulta da parte della Presidenza della Repubblica, che si affrettò a smentire categoricamente. Ma la vicenda apparve -ed appare- oscura ed inquietante.

20 SISTEMA ELETTORALE MAGGIORITARIO:
Abolizione quota proporzionale


Con questo referendum si intende riproporre il medesimo quesito approvato a stragrande maggioranza lo scorso 18 aprile 1999, ma vanificato nei suoi effetti legislativi per il mancato raggiungimento del quorum.
Si tratta della ormai pluriennale battaglia radicale per la riforma della legge elettorale all'"americana" ad un turno, per avviare il nostro sistema politico al 'bipartitismo' anglosassone, per chiudere i 44 partiti che infestano la partitocrazia italiana e passare al sistema elettorale delle democrazie classiche occidentali.
La riproposizione di questo quesito, inoltre, vuole sgombrare il campo da tutte le ambiguità di quelle forze politiche che pur appoggiando formalmente il quesito lo scorso 18 aprile erano pronte a snaturarne l'esito approvando "doppi e tripli turni" in Parlamento, invogliando in tal modo i cittadini a disertare le urne.