LA TRI(E)STE IMPRENDITORIALITA'


Non c'è da stupirsi se il nostro Paese è il fanalino di coda nella ricerca e sviluppo in Europa. Ciò è dovuto a molteplici ragioni e, tra le altre, alla condizione di totale abbandono e scoramento che vivono quei pochi manager che hanno voglia di fare i quali si scontrano invece con una sorta di pervicace incapacità imprenditoriale proveniente dalla proprietà delle aziende, una costante e immutabile inettitudine di fare imprenditoria. In particolare, per Trieste, non c'è nulla da meravigliarsi, prima abbiamo buttato al mare la parvenza di industria che c'era, poi non abbiamo creato nessun tipo di infrastrutture, non siamo stati capaci di convincere le ferrovie dello stato a far passare da qui una linea veloce e neppure un semplice treno che attuasse un collegamento con l'aeroporto. Adesso stiamo chiudendo anche il commercio.

Chi mai potrebbe avere il coraggio di muoversi, di fare qualcosa di nuovo? Nessuno. Nessuno fa niente perché è l'unico modo di non sbagliare. L'imprenditorialità viene punita mentre viene premiato chi riesce a dribblare i problemi, a restare sempre a galla, a non esserne "toccato" da essi. Perciò ha tanto "successo" il nostro motto "no xe pol": è una sorta di icona semantica come "a muina" o come il "futtetinne", dei napoletani.

Ciò che non abbiamo ancora capito come sistema paese (e ancora meno come sistema città) è che nel nostro pianeta è stata inoculata una massa di lavoratori pari a due miliardi di persone! Con la Cina e l'India, il capitalismo mondiale di botto si è ingrandito di una quantità impressionante di persone che per giunta lavorano bene e a poco prezzo. Una iniezione di forza lavoro pari a quattro Europa o quaranta Italia. E noi che facciamo? Niente. A livello politico stiamo a litigare e a livello imprenditoriale pure. L'ambiente direzionale di qualsiasi società è una sorta di campo di battaglia perenne. Invece di lavorare si sta tutto il giorno a pensare di fare le scarpe a questo o a quello o unirsi a una cordata vincente per restare a galla. E' questo quello che paga. Avere nuove idee o portare avanti un processo produttivo innovatore ti espone soltanto a rischi senza nessun beneficio. Queste belligeranze all'interno delle aziende nascono dalle passioni umane, e, come diceva Platone, non ci si sottrae perché è insita nella natura dell'uomo cioè nella nostra innata inclinazione alla collera ed alla prepotenza, nella nostra ansia di affermarci ed esercitare il predominio e la supremazia.

Assistiamo apatici e indifferenti alle Opa tra le aziende, perché sono cose che stanno lontano anni luce da noi: cosa ce ne può importare della scalata alla BNL o della fusione tra Unicredit e Hypovereinsbank? I servizi domestici che offriamo, sono talmente protetti, che non solo non esportiamo nulla ma non si riesce neppure a pagare il petrolio che importiamo. Invece dovremmo essere come le Generali o come Unicredito: loro non chiedono dazi, piuttosto si sono chiesti di quali servizi hanno bisogno in Europa dell'est, di cosa hanno necessità i cinesi. Unicredito ha acquistato la seconda banca tedesca nel più totale silenzio della Bundesbank e del governo. Come la mettiamo con quelli che da sempre ci spiegano che la Banca d'Italia deve difendere le nostre banche perché così avviene in Europa?

A fronte di questi casi che sono l'eccezione, c'è invece il problema sociologico che accennavo prima e che va affrontato: nella maggior parte dei casi, quando una compagnia acquista un'altra, quello che in realtà si mette in atto è una sorta di guerra che la dirigenza acquirente perpetra nei confronti di quella acquisita, una contesa combattuta con ogni tipo di armi "civili" (bugie, trappole costruite a tavolino, scartoffie processuali) armi improprie utilizzate da una parte (quella più forte rappresentata dall'acquirente) contro quella inerme (la dirigenza rilevata al momento della vendita). Così accadde, ad esempio, con Sasa, l'ultimo piccolo baluardo assicurativo triestino. Questa compagnia fu acquistata per pochi spiccioli, e, nel giro di pochi mesi tutta la dirigenza triestina fu eliminata. Eppure, Trieste è la città più assicurativa di Italia! Nell'ottocento c'erano più di 150 compagnie di assicurazioni. Qui si respira assicurazione in ogni angolo di strada. Perciò grandi cattedratici della nostra Facoltà di Economia e Commercio (prof. Daboni, prof. de Ferra) lottarono moltissimo negli anni '70 e si batterono per avere la facoltà di scienze statistiche e assicurative.

Ad ogni modo, il problema non è tanto chi compra e vuole mettere i propri dirigenti. Il problema di questa città è che non è capace di ritrovare il suo Dna. Per una Sasa che se ne va non c'è un'altra che arriva. Così, durante la seconda guerra mondiale abbiamo assistito al trasferimento della RAS a Milano, ché, si diceva, fu fatto per sottrarla al rischio che potesse finire oltre cortina (come del resto accadde con i portafogli dell'est europeo che furono nazionalizzati e quindi persi). Solo che finita la guerra, Milano non ce la restituì e qui rimase la prestigiosa sede di piazza della Repubblica che per consolazione assunse la direzione per l'estero. Una direzione prestigiosa ma che di fatto non contava nulla. L'azionista era a Milano. La direzione per l'estero durò fino al 1989, quando la RAS fu acquistata dall'Allianz e fu la prima cosa che i tedeschi fecero sparire. Nessuno fece nulla per difendere i posti di lavoro del management industriale: ai dirigenti, si sa, non li difende nessuno. Successivamente, anche il Lloyd Adriatico fu acquistato dall'Allianz. Oggi, c'è solo un'eccezione che conferma la regola del non fare: si tratta delle Generali. La filiale cinese della nostra multinazionale assicurativa ha raggiunto una elevatissima quota di mercato. Merito di un management sapiente e lungimirante, che ha avuto una grandissima intuizione: vendere polizze vita in Cina dove non ci sono pensioni. Elementare Watson.

Dunque il capitalismo ha queste regole: chi non si rinnova muore. Chi non ha il coraggio di scommettere e vive arroccato nelle proprie rendite di posizione è destinato a fallire. Non è certo colpa del capitalismo se non siamo in grado di fare imprenditoria, ma caso mai degli uomini che lo interpretano. Fu in questa città che nacque pochi anni fa, per la prima volta in Italia, la polizza Long Term Care, un prodotto mirato per la quarta età che garantiva un vitalizio in caso di non autosufficienza. Il prodotto ideale per la città più vecchia di Italia e di Europa. Fu un fallimento. Il management che aveva ideato il prodotto ci credeva fortemente, purtroppo l'azionista no: era meglio restare ancorati alle tradizionali polizze legate ai fondi di investimento, anche se tutto il mercato faceva le stesse polizze. Anzi, meglio se tutti fanno lo stesso; non si corre il rischio di sbagliare. Così fu premiato chi non aveva idee, chi non ha avuto il coraggio di puntare su cose nuove e fu punito il management ideatore delle nuove strade e che aveva avuto la forza d'animo di percorrere sentieri non battuti. E fu ancora a Trieste dove nacque la polizza assicurativa RCAuto che copre solo l'uso giornaliero della propria autovettura, ottenendo un notevole risparmio per molte famiglie e per coloro che hanno più automobili di cui alcune utilizzate pochissimo. Questo prodotto che sicuramente sarebbe sponsorizzato da tutti, da Legambiente al Codacons avrebbe mandato in soffitta tutta la c.d. "personalizzazione" (una snervante e inutile raccolta di dati: età, sesso, professione, classe di merito, anzianità della patente, potenza motore, provincia di residenza, ecc.) posto che sono dati che in realtà qualificano il rischio ma non lo quantificano. Inoltre avrebbe contribuito a dare una spallata al bonus-malus che ormai ha fatto il suo tempo, e avrebbe finalmente dato peso alle variabili che veramente contano (percorrenza chilometrica, uso del veicolo). Ma dove sono andati questi prodotti? Da nessuna parte. Stanno lì che aspettano. Stanno facendo il loro sogno di tigre, dimenticati in un cassetto attendendo di essere riscoperti da qualche risoluto imprenditore.

La città più assicurativa di Italia, non riesce più a creare alcunché, e se lo fa, non riesce a trattenerlo. I dirigenti delle compagnie locali si guardano bene di fare innovazione ed i manager si inventano di volta in volta pretesti tecnici (cannibalizzazione del proprio portafoglio, caduta degli introiti finanziari, ecc.) che però, tradotti, significa semplicemente "no xe pol". Ma in realtà il problema è un altro: se fai qualcosa e poi va male gli altri approfittano per farti fuori, dunque è meglio non rischiare. Ed è questa l'analisi sociologica che si dovrebbe affrontare. Su questa direzione si dovrebbe muovere la politica cercando di arginare questo fenomeno di ignavia imprenditoriale che ha buttato questo Paese sulla china di un Pil negativo. Viene da chiedersi che fine avrebbe fatto Bill Gates, se fosse nato in Italia ... Chi ha un nuovo prodotto cosa dovrebbe fare? La risposta da manuale è semplice: bisognerebbe creare una azienda nuova, una strategia ad hoc per quel prodotto specifico che si concentri sul core business. Ma non sempre le risposte da manuale sono quelle che vengono poi adoperate. I dirigenti che avevano la RCAuto giornaliera sono andati in giro a cercare il c.d. capitale di rischio, ma, in questa città chi ha il danaro preferisce tenerselo in banca, al riparo di qualsiasi idea imprenditoriale, nonostante i business plan mostravano ritorni dell'investimento dell'ordine del 30 %, meglio le rendite parassitarie che rischiare.

A questa placida e rilassata natura tranquilla del triestino, si aggiunge la iattura della classe politica che con una indolenza e una lungimiranza che non è mai andata oltre il proprio naso, ha finito per legare mani e piedi la città, per poi buttarla a mare. Abbiamo votato una giungla di satrapie che nel migliore dei casi ci hanno cloroformizzato con parole vuote di significato: "riunirsi intorno a un tavolo per discutere" oppure "interpretare i bisogni della città" oppure ancora "aumentare l'efficienza programmatica" e cose di questo genere. Senza che in realtà nulla fosse fatto. Oramai Trieste non è più in grado di risollevarsi. Anche con il Porto è successa la stessa cosa: tutto l'indotto che produceva è andato via per sempre. I buzzurri (nel senso di forestieri) che sono arrivati con la sola intenzione di mordere e fuggire, assieme ai satrapi mesopotamici che l'hanno governata, hanno tolto alla città il suo entroterra e la capacità di concorrere, accordandosi con i sindacati sul quieto vivere a cambio di voti e mantenendo caste protette a scapito del lavoro giovanile e dei disoccupati. Infine il mancato ricambio generazionale delle maestranze, ha fatto il resto: con la perdita delle conoscenze ed il non saper competere, la produttività è crollata.

E adesso che si fa? Siamo stati testimoni disarmati della chiusura di tutte le nostre attività industriali. Ora siamo spettatori inermi della chiusura delle attività commerciali. E' una logica conseguenza: se non si produce, chi compra? Come fermeremo i prodotti cinesi che arrivano e ci invadono con prezzi pari al 5% dei nostri? Del resto, se non ci sono soldi, perché dovrei spendere 150 euro per una borsetta che invece compro a 10 euro soltanto? Siamo ancora convinti che il design possa dare valore aggiunto ai nostri prodotti?

Quando la Francia e la Germania ci chiesero di partecipare al progetto Airbus, con lungimiranza politica degna del mondo di Lilliput, abbiamo detto no. Quando bisognava difendere l'industria elettronica italiana, la stessa avvedutezza politica decise che era meglio spendere i soldi per cablare l'Italia e non per la ricerca, così abbiamo legato e imbavagliato la nostra industria elettronica e consegnata all'estero. Quando si trattò di pensare al treno ad alta velocità Torino-Trieste, con altrettanta previdenza e perspicacia politica, non si fece niente. Francia ci chiese di entrare nel consorzio del TGV e abbiamo detto no. Ci siamo inventati il pendolino che è un trenino dei poveri e che non vuole nessuno. E' chiaro che ora paghiamo il conto di questa inerzia. Dobbiamo avere il coraggio di passare questo conto ai ciarlatani politici poiché con la loro inoperosità arroccata nella povertà di spirito ci hanno venduto al nemico: non avendo fatto niente in questi anni e non avendole fatte neppure per noi stessi, non possiamo esportare alcunché. Non abbiamo il know-how. Ora che Cina e India hanno bisogno di tecnologia da importare, Francia e Germania stanno esportando i loro progetti mentre noi non abbiamo niente da offrire. Fatta eccezione per le Generali.

Questa è la nostra imprenditorialità e questa è la nostra classe politica. Dunque non c'è nulla da stupirsi se retrocediamo ogni giorno di più, né da meravigliarsi se l'Istat ci dice che la crescita del Paese è negativa. Ora sappiamo a chi passare il conto. Un tempo c'erano attori veri ma gli scenari erano di cartone. Ora gli scenari sono veri ma temo che gli attori siano di cartone. Sia gli imprenditori, sia i politici. Bisogna solo ricordarsene alle prossime elezioni.

Walter Mendizza