INTERVISTA A WALTER MENDIZZA (by Christina Sponza)

IL CASO SASA VITA

Sasa Vita non è importante in sé stessa ma è importante in quanto è un campione rappresentativo dell'abbandono che si registra nel nostro Paese.

D. Parlando del "caso Sasa" che tu hai vissuto sulla tua pelle, hai fatto riferimento al c.d. Caso Italia il noto tema dei Radicali per liberare e legalizzare l'Italia, c'è qualche collegamento o è stata una forzatura?

R. No. Non è una forzatura. Il "Caso Italia" sta dappertutto intorno a noi. E più lo si conosce e più lo si ri-conosce. Come quando da piccoli qualcuno ti spiega come vengono al mondo i bambini. Fino a quel momento non avevi mai notato donne incinte, ma da quando realizzi quella scoperta non fai altro che vederle; e ti sembra incredibile che ce ne siano così tante, da chiedersi dov'erano prima! Così accade ance per il "Caso Italia". Ad esempio, oggi ci siamo alzati con la notizia delle firme false raccolte per le elezioni regionali da Alessandra Mussolini. Non è bizzarro? Cinque anni fa Pannella e Bonino presentarono ottantatré denuncie nelle rispettive Procure, chiedendo che fossero sequestrate le liste allora depositate. Lo stesso fecero Marco Cappato e Maurizio Turco che depositarono la denuncia alla Procura Generale. Cosa successe? Niente. Anzi, peggio. Accadde che con la legge n° 61 del 2004 tutto il Parlamento derubricò il reato (da penale ad ammenda) determinandone la prescrizione. Vedi? Si tratta di un altro caso Italia. Ed è il primo che mi viene in mente adesso che ho finito di ascoltare la radio e sto parlando con te. E ce ne sono un'infinità dietro ogni angolo. C'è da chiedersi dov'erano quella volta i signori che oggi puntano il dito contro le firme false? Perché all'epoca furono accettate oltre mille firme raccolte e autenticate in una notte, senza che nessuno battesse ciglio?

D. Sì, certo ma questi sono casi "politici" cosa c'entra con il caso Sasa?

R. E' chiaro che tutto è politico. E non si tratta solo di una questione di dimensioni: in altri paesi più civili e magari più democratici questi "casi" avrebbero ricevuto altra dignità di indagine, di stampa o di riflessione politica e non la solita prescrizione fatta passare di nascosto. Il merito dei Radicali è stato quello di segnalare e denunciare i grandi temi politici che rappresentano il Caso Italia, come il mancato plenum nella Camera dei Deputati e nella Corte Costituzionale oppure la negazione del diritto all'informazione oppure ancora sulla giustizia o sulla situazione carceraria. Ma credo che ci sia un secondo livello di Caso Italia che riguarda più da vicino tutti noi ed ha a che fare con il rapporto che il singolo individuo ha con le istituzioni, con le persone che lo circondano, con il mondo che gli sta attorno, con il proprio lavoro. E' un errore non trattare i casi personali come tanti aspetti del Caso Italia. Un po' come nella psicologia sociale non si trattano casi come l'innamoramento o il rapporto di coppia; quasi fossero troppo banali o troppo poca cosa per assurgere al rango di ricerca sociologica. Tuttavia credo che alla gente interessi molto di più queste "piccole" vicende che non i grandi sistemi dove per forza di cose non possono identificarsi. La dimostrazione la possiamo vedere tutti i giorni con gli strilloni che i giornali mettono fuori per attirare l'attenzione: annunciano solo notizie che riguardano da vicino le persone comuni.

D. Dunque il caso Sasa come uno dei tanti rivoli del grande fiume Caso Italia?

R. Esattamente. Io credo che la gente ha una marea di piccoli soprusi da denunciare ma che non lo fa per quieto vivere, per evitare rogne. Del resto in Italia se decidi di adire alle vie legali per piccole cose ancorché di principio rischi di farti male due volte: uno al portafoglio ed un altro alla verità, che non puoi mai sapere se coinciderà con la verità in diritto dato che in questo Paese una cosa è avere ragione ed un'altra è farsela dare. Proprio ieri parlavo con uno che è stato espropriato di un terreno da parte dalla Provincia e da tre anni che sta aspettando il rimborso. In questo caso la Provincia aveva dato tutta la gestione dell'esproprio in appalto ad una ditta privata, che era quella che doveva costruire la strada ma anche pagare gli espropriatiŠ Per un piccolo terreno dal valore di dieci mila euro non vale la pena fare una causa se non hai una polizza di tutela giudiziaria. Così la ditta privata può spadroneggiare e la Provincia se ne lava le mani perché dal punto di vista formale è a posto. E il mio amico aspetta ... Ecco un altro piccolo Caso Italia. Ce ne sono a dozzine.

D. Perché il caso Sasa o il caso Sasa Vita è importante?

R. Perché siamo un povero paese che crede di essere la quinta potenza industrializzata al mondo ma non è più così. Navighiamo a vista e retrocediamo a vista. Il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi mentre noi ci siamo seduti. E una seggiola non è ricerca, non è innovazione. Sasa Vita era una compagnia appena nata, un'isola felice che cavalcava la ricerca e l'innovazione ma non è stata lasciata vivere sulla cresta di quel frangente, per meschini motivi che si possono leggere nella vicenda che presento qui nel mio sito, dal titolo "Storia di un'ordinaria ingiustizia". Il fatto è che tutti i giorni sentiamo alla radio e alla televisione l'importanza di essere competitivi, innovativi, ecc. del calo dei consumi interni e delle esportazioni. Insomma una sfilza di cattive notizie che fanno da sponda a politici scorretti che sfruttando l'ignoranza della gente sperano di racimolare voti con panzane tipo i dazi per i prodotti cinesiŠ Invece il problema è sistemico. I governi cercano soluzioni immediate perché così si tranquillizza l'opinione pubblica e quella pubblicata, ma l'effetto è deleterio: lo sai quanta energia è necessaria per far girare una nave se la si vuole prendere dalla prua? Invece con una paletta di pochi centimetri quadrati ma posta al punto giusto, la nave gira praticamente da sola. Questo è sistemico. Il governo ha deciso di destinare un miliardo di euro all'anno per la competitività, ma cosa significa? a cosa serve? Sono spiccioli che vengono buttati via per la mancanza di una strategia sistemica. Le ultime inchieste sull'istruzione e ricerca ci vedono tra gli ultimi posti. L'istituto di educazione superiore di Shanghai ha stilato una classifica mondiale delle università tenendo presenti parametri quali i premi Nobel ed il numero di pubblicazioni fatte. Ebbene per trovare l'Università Statale di Milano bisogna scendere al 143° posto mentre nelle prime 15 posizioni ci sono ben 13 atenei degli Stati Uniti. Ecco perché il caso Sasa Vita è importante, perché all'inizio, nel momento di disegnarla, eravamo tre laureati, tutti con 110 e lode, che hanno elaborato uno studio di fattibilità molto dettagliato e hanno disegnato una compagnia rivoluzionaria che aveva fatto dell'innovazione e della ricerca il suo modus operandi. E quando queste cose non vengono capite o vengono distorte da furfanti che ne fanno trappole per sciocchi, per dirla alla Kipling, si mette in moto un pericoloso meccanismo che ci porta tutti alla deriva. Sasa Vita non è importante in sé stessa ma è importante in quanto è un campione rappresentativo dell'abbandono che si registra nel nostro Paese.

D. Ti riferisci ai nuovi prodotti che Sasa Vita aveva introdotto sul mercato?

R. Esattamente. Introdurre in un mercato maturo come quello delle assicurazioni nuovi prodotti non è cosa facile. Anzi, è difficilissimo. Soprattutto se questi prodotti sono altamente "tecnologici" e informatizzati. Il Word Economic Forum di febbraio 2005 ha detto che in materia di sviluppo e uso delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, l'Italia si trova all'ultimo posto tra i maggiori Paesi industrializzati. Veniamo dopo la Tunisia, la Turchia, la Giordania (!). Peggio di noi stanno solo Giamaica e Botswana. Queste sono cose che fanno male. Perciò il caso Sasa Vita acquista ancora più importanza: perché si è trattato di una sorta di "delitto", di un crimine assicurativo, una scellerataggine che purtroppo non è isolata e che sicuramente riflette quanto sta accadendo a livello nazionale anche in altri settori. E l'infamia non riguarda tanto il fatto che sia stato licenziato un direttore generale (cioè il sottoscritto) che nulla aveva commesso ma che anzi, aveva creato una compagnia modello da fare invidia; l'infamia riguarda il fatto che è stata distrutta, cancellata di proposito tutta la ricerca sui nuovi prodotti che tanta fatica era costata e che addirittura avevano portato alcuni dirigenti dell'Istituto di Vigilanza a complimentarsi con noi. Insomma, non appena si fa qualcosa di buono nel nostro Paese, viene sempre qualcuno ad agguantarselo, a portarsi via i meriti e, se non ci riesce, peggio per la cosa, che verrà disprezzata, come la volpe con l'uva. In definitiva, per proteggere piccole rendite di posizione di qualche satrapo paracadutato da chissà dove, non si è saputo far di meglio che buttare il bambino con l'acqua sporca. Questo è il vero dramma del nostro Paese. Hai voglia, di far ricerca e innovazione in un ambiente così! Forse Sasa Vita introduceva elementi di impoliticità nella politica gessata e ingessata del mondo assicurativo, ma se il fine consiste nel rilancio della competitività, bisogna creare un sistema di regole a livello nazionale che non permetta che possano accadere queste cose.

D. Ma il sistema di regole, non c'è già?

R. E' vero, il sistema di regole c'è, ma nessuno le rispetta. Dopo pochi mesi che la SAI "comprò" il gruppo Sasa (in realtà se la fece regalare ma per i dettagli si rimanda alla storia) io sono stato accusato di cattiva gestione della piccola neonata Sasa Vita, senza potermi difendere neppure davanti al nuovo Consiglio di Amministrazione in spregio all'art. 20 dello Statuto ma soprattutto in spregio ai doveri degli amministratori descritto negli artt. 2391 e 2392 c.c. che avevano l'obbligo di capire ciò che accadeva. Non era possibile che fino al giorno prima venivo applaudito ed elogiato per l'ottima gestione e dal giorno dopo ero invece responsabile di una cattiva gestione. La compagnia era sempre la stessa, quindi delle due l'una: o il CdA precedente era costituito da gente incapace oppure lo era il nuovo. Se c'era qualcosa che non andava, il nuovo CdA avrebbe potuto convocarmi per eventuali chiarimenti. Ciò non accadde. Evidentemente si trattava di un CdA fantoccio che non voleva ascoltare alcuna verità. Un consigliere che conosco mi dice sempre che lui non ha mai saputo niente della vicenda in questione in quanto i CdA di Sasa e Sasa Vita si tengono più per formalità aziendale che altro, dato che quando qualcuno molto in alto dà tutti i poteri ad un altro, quest'ultimo ne diventa pienamente responsabile dell'uso che ne fa. Così stanno le cose, con buona pace della responsabilità collegiale dei Consigli di Amministrazione.

D. La responsabilità dei consiglieri è collegiale?

R. Certo. L'etica societaria è il pilastro sul quale poggia la realizzazione del superiore interesse di una Società. Ed è in tal senso che dovrebbe inquadrarsi il complesso dei doveri degli amministratori descritti negli artt. 2391 e 2392 c.c. Alla luce del nuovo diritto societario è definito con precisione che gli amministratori devono adempiere ai loro doveri con la diligenza NON più del mandatario bensì da quella richiesta dalla natura dell'incarico. Dunque è stato introdotto un connotato di responsabilità più rigoroso il cui termine di valutazione è paragonato alla diligenza di tipo professionale nel quale confluisce anche la lealtà di comportamento.

D. La legge stabilisce sanzioni?

R. In teoria sì. In pratica però... l'art. 2631 dovrebbe punire severamente la condotta di quegli amministratori che non hanno osservato l'obbligo della diligenza. E addirittura la giurisprudenza penale ritiene che un tale reato sussista ancorché non si sia determinato un danno per la Società. In questa cornice normativa emerge il "rigore" dell'impianto vigente che vede nel Consiglio di Amministrazione la sede istituzionalmente incaricata alla spiegazione, all'illustrazione, alla composizione dei contrasti. E' la sede dove l'etica societaria è il pilastro che sorregge l'individuazione ed il rispetto con riferimento ad ogni fattispecie. Belle parole ma di fatto inutili, soprattutto per un CdA che non rappresenta tanti azionisti ma uno solo, che non tiene conto del concreto rapporto dialettico fra gli organi interni della società, vale a dire, proprietà, gestione e controllo nei confronti degli azionisti di minoranza e dei creditori sociali, né tiene conto di alcuna funzione delle autorità indipendenti preposte a garantire un più elevato grado di controllo nell'interesse del mercato. Insomma quando hai un azionista unico è una vera e propria iattura, perché se ne infischia di realizzare l'interesse sociale nel rispetto delle regole e si comporta come un padre-padrone che diventa il tuo feudatario ed al quale devi ubbidire accucciato sulle sue ginocchia, per usare un'immagine non maschilista.

D. Ma perché queste sanzioni non funzionano?

R. In primo luogo perché queste modifiche apportate con legge n° 366/2001, ai doveri degli amministratori sotto il profilo della autoresponsabilità ex artt. 2391 e 2392, sono pensate per CdA che rappresentano una pluralità di azionisti. La riforma del diritto societario mira a proteggere l'azionista di minoranza. Se invece il CdA rappresenta un solo azionista, è chiaro che il problema di proteggere la minoranza non si pone. Dunque il CdA che si riunisce è un CdA fantoccio che si compone solo in maniera proforma come mi ha confermato il Consigliere che conosco.

D. Dicevi in primo luogo per l'azionista unico, ma c'è un secondo luogo?

R. Sì, in secondo luogo le sanzioni stabilite dalla legge non funzionano perché quando ti licenziano lo fanno senza che nessuno tenga conto di una tua eventuale possibilità di difesa. Dunque il licenziamento avviene solo con l'arbitrio di un satrapo (che eventualmente racconta al CdA un sacco di panzane senza riscontro e senza possibilità di confronto). In queste condizioni, quando imposti la causa con un avvocato, per il solo fatto che sei stato licenziato, diventa subito una causa di lavoro escludendo tutti gli altri particolari, in special modo le fattispecie descritte negli artt. 2391 e 2392 e le eventuali sanzioni dell'art. 2631. La causa di lavoro non ti permette più di fare marcia indietro mirando ad una impostazione diversa. Hai stabilito la causa come causa di lavoro? Allora devi subirne le conseguenze, soprattutto devi tenertela, senza poter "aprire" altri fronti. Le persone licenziate normalmente si avvalgono di avvocati del lavoro i quali non vedono altro che cause di lavoro. E' lapalissiano.

D. Perché pensi sia utile raccontare una storia privata?

R. Perché serve ad aprire gli occhi, a cercare di mettere un freno alle vicende societarie basate sulla forza come unica arma per raggiungere gli obiettivi sociali. Quando una cordata vincente prende il potere, si vendica riducendo i dirigenti non allineati all'impotenza e alla frustrazione, cancellandoli per odio prima ancora che per calcolo politico. Può sembrare brutale ma è così. Questo ovviamente non fa bene alle nostre aziende. Ed è il motivo per il quale non solo andrebbe denunciato ma si dovrebbe avviare anche una profonda analisi sociologica su questi fenomeni. Oggigiorno ci si comporta con le persone licenziate con l'omertà che un tempo era riservato alle persone che avevano chissà quale malattia infettiva oppure alle donne violentate. Infatti chi subiva una violenza raramente la denunciava proprio perché poi si veniva additati da tutti e perché in fondo se la disgrazia ti è capitata, un motivo ci sarà pure, no? Un'infamia che affonda le proprie radici nell'ignoranza del popolino che era alla mercé del potente di turno, ma anche dei tribunali che allora erano profondamente maschilisti. Si tratta di un atteggiamento da "silenzio degli innocenti" come in un mattatoio di pecore, che si lasciano scannare senza fare il benché minimo belato. Un silenzio assordante, un silenzio complice, correo e connivente con coloro che nelle stanze dei bottoni giocano a fare la guerra senza un briciolo di umanità e senza che abbiano il benché minimo interesse per l'azienda che dirigono.

D. Cosa speri di ottenere raccontando la storia?

R. Spero di incontrare tante persone che, come me, sono state vittime di soprusi, di avvenimenti drammatici che riflettono fratture e tendenze di lungo periodo del nostro povero capitalismo che ogni giorno viene dato in pasto agli amici o agli amici degli amici ma non alle persone capaci. Spero di avvicinarmi ad un universo più allargato, a chi si è già interrogato su dove stiamo andando, a chi è stato sacrificato da capitalisti senza capitali, da un modello d'impresa che ha sostituito l'etica del profitto e della responsabilità con guerre puniche per occultare la propria incapacità a fare alcunché. Spero di poter avvicinare chi ha sofferto le sciagure senza padri di grandi società, le disgrazie di grandi banche, le disavventure di grandi compagnie di assicurazioni. Il quadro che esce fuori dalla Vicenda Sasa è grottesco ed è tanto più stravagante quanto più lo spaccato emergente pone di manifesto la realtà stessa, che palesa e ci svela quanto assomigliamo sempre più ad un paese di Pulcinella: acquistati dal grande gruppo assicurativo SAI, la Sasa ma soprattutto la Sasa Vita diventarono all'istante un mondo di funzioni inutili, di prodotti superati, di burocrazie al veleno dove nessuno pensa ad un lavoro da fare ma ad un posto da occupare. Non importa che i prodotti di Sasa Vita fossero talmente alla vanguardia che neppure oggi, dopo anni dall'acquisizione, né la SAI né nessuna altra compagnia del mercato si è avvicinata alla straordinaria qualità di quelli all'epoca inventati. No, non importa niente a nessuno. Per questa ragione ho l'obbligo morale di raccontare questa storia, perché sono questi i veri motivi che hanno fatto diventare il nostro Paese il fanalino di coda in Europa, l'ultima ruota del carro.

D. Dunque le operazioni di acquisizione sono un fallimento?

R. Sì. Soprattutto quando l'operazione non mira a valorizzare ciò che si ha ma soltanto ad inglobare fatturato, a crescere per ridurre i costi dando calci a destra e a manca per buttar fuori il maggior numero di persone possibile, queste sono le economie di scala che sanno fare i nostri imprenditori: le idee che eccellono, i prodotti che valgono, le persone che ci hanno lavorato sopra con abnegazione e che hanno saputo dare una scossa salvifica a situazioni difficili, spariscono e vengono inghiottite da chi deve sopravvivere più di te perché è più importante di te. Contano solo i nuovi rapporti di forza e se tu non ci sei dentro questi rapporti, allora sei out. In queste circostanze la compagnia acquisita resta intrappolata tra poteri indiscutibili e assenza di critica, imprigionata in un mondo che sembra più l'eredità di qualche azienda sovietica che quella di un ente moderno fatto di competitività imprenditoriale, ingabbiata in criteri oscuri e impenetrabili dove il calcio nel sedere regna sovrano indipendentemente dai risultati e dal tanto vantato liberismo.

D. In questa storia hai avuto molto da dire anche sulla giustizia?

R. Sì, non per niente l'ho chiamata "Storia di una ordinaria ingiustizia". Purtroppo ho toccato con mano le parole di Tolstoj: "Dove c'è un tribunale, c'è l'iniquità". Perché per commettere i soprusi in tutta tranquillità, devi sapere che hai un'elevata probabilità di passarla liscia. E comunque, nel nostro Paese, essere accusato è già una condanna. Chiunque abbia un minimo di conoscenza su come funzionano i nostri tribunali non ha alcuna difficoltà nel mettere in piedi un raggiro. Tanto, tra sottigliezze, arzigogoli, sofismi e cavilli vari, non se ne viene più fuori. Ed il magistrato con l'icona dell'imparzialità in testa, come una bilancia, parte sempre da una variabile aleatoria equidistribuita: come nel lancio di una moneta, dà il 50 per cento di ragione ad una faccia ed il 50 all'altra. Del resto, non può fare altrimenti: non conosce la vicenda e si crogiola sul fatto che prima o poi i contendenti si metteranno d'accordo.

D. E questo non avviene?

R. Probabilmente il mettersi d'accordo è la stragrande maggioranza dei casi. Perché tutto sta nel "prima o poi", questa è la vera chiave del busillis: poiché "prima o poi" significa che intanto il tempo passa e se in una udienza ti tocca il giudice che adopera un atteggiamento mentale di chi ascolta una discussione lontana e che non lo riguarda, in un'altra, mesi più tardi, lo stesso giudice può tirare sospiri accomodanti del tipo "volemose ben", ed in un'altra ancora, un anno più tardi, ti tocca vedere che si trastulla annoiato ascoltando i ragionamenti capziosi ora di un avvocato ora dell'altro. Ma tutti questi casi hanno un denominatore comune: quel "prima o poi" che non è altro che far trascorrere il tempo aspettando il momento in cui i contendenti si stancano per metterli d'accordo per forza.

D. Dunque il tempo usato come arma impropria?

R. Sì, perché il tempo è una variabile asimmetrica che gioca solo a favore del contendente più forte, quello che ha tempo. Se fai causa ad un ente, ad una istituzione, ad una società, questi hanno tutto il tempo del mondo. Tanto, i loro rappresentanti continuano a prendere lo stipendio. Sei tu invece che hai sete di giustizia e senza il tuo stipendio che ti è stato derubato la tua sete aumenta e vorresti solo accelerare. Ma non puoi. Il giudice aggiorna le udienze con tempi biblici perché nulla è più intelligente della sospensione del giudizio; è la prima regola: essere cauti. Così si innesta una machiavellica situazione: il giudice, stanco di essere bilancia, si trasforma in peso.

D. Bella questa. Dunque un caso Italia anche sulla giustizia?

R. Beh, la giustizia è per antonomasia il caso Italia. E' per eccellenza la madre di tutti i casi Italia. Solo che anche in questo frangente c'è un caso Italia, come dire, di grande respiro: l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale o la separazione delle carriere dei magistrati oppure la riforma in senso uninominale e maggioritario del sistema elettorale del C.S.M. o la riduzione dei termini di custodia cautelare. Insomma, grandi temi. Tuttavia io mi riferisco, come accennavo prima, piuttosto ad una materia più contenuta che tocca tutti noi più da vicino.

D. Cioè?

R. Mi riferisco ad una giustizia fatta quasi dalla impossibilità materiale di essere giusta, una chiara testimonianza dell'umana stoltezza date la quantità di contraddizioni ed errori che presenta. Voglio mettere in evidenza il paradosso favolistico come fece Collodi: Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: 'Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo, dunque, e mettetelo in prigione!' . Così vanno le cose anche nel mondo reale e perciò che bisognerebbe reclamare una iniziativa moralizzatrice a livello nazionale. Per tutti questi motivi, l'unica forma di giustizia che al momento vedo che si possa attuare è quella di pubblicizzare i fatti. Renderli noti a tutti, affinché il mondo intero, attraverso Internet, sappia com'è fatta la giustizia, come sono fatte le persone che la amministrano e come sono fatti i furfanti che di essa se ne approfittano.

D. Pensi di creare un'associazione su questi temi?

R. Dipenderà molto dal "successo" di questa iniziativa. Per ora penso solo a sollevare il coperchio del pentolone anche se ciò significa scendere in un terreno inesplorato dove può capitare di tutto. Dopo vedremo. Credo che il comportamento della SAI sia stato negatore di intelligenza, di cultura e di buon gusto, quindi registrarlo per poi stenderne la storia è un atto dovuto prima ancora che politico, estetico. Probabilmente molta gente scriverà raccontandomi le loro personali esperienze. Io non credo, come Apollonio di Tiana, che il silenzio sia anche logos. Caso mai ciò vale per il silenzio interiore che è acustica dell'anima. E questo silenzio c'è stato tutto: ho lasciato passare più di tre anni prima di parlare, di scrivere, di dire come la penso. Ho dovuto maturare la convinzione che facevo cosa buona per tutti. Mi sono persuaso di farlo perché si tratta di un terreno oscuro e limaccioso quello di rimanere in religioso silenzio, un terreno che rivela un fondo opaco idoneo ad abusi di ogni genere. Io credo invece che si debbano socializzare le esperienze, che si debba parlare molto, prima di poter tacere. Se stai zitto come chiedono tutti quelli che pensano sia meglio che ciascuno si tenga le proprie disavventure, fai il gioco di chi aspira ad avere da te una sorta di muta complicità. Se ciò dovesse accadere, credo che il silenzio si trasformerebbe nella più grande delle persecuzioni.

Trieste, marzo '05



Il sito web di Walter Mendizza
IL CASO SASA VITA: STORIA DI UNA ORDINARIA INGIUSTIZIA
Foto - Walter Mendizza